Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), ha accolto il ricorso proposto da Sisal Lottery Italia S.p.A. contro l’Agenzia delle dogane e dei monopoli.
“Sisal Lottery Italia s.p.a., risultata concessionaria per l’esercizio e lo sviluppo dei giochi numerici a totalizzatore nazionale, all’esito di gara pubblica indetta con bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea in data 29 giugno 2007, si era impegnata, secondo quanto disposto dall’art. 15 comma 2 della convenzione di concessione, “a stanziare… per la realizzazione degli interventi di comunicazione ed informazione… a decorrere dall’avvio della concessione, un importo annuo pari al valore percentuale della raccolta dell’anno precedente di 1,82% indicato nell’offerta economica”, con la precisazione che tale importo non avrebbe potuto essere “inferiore ad euro 10.000.000 (diecimilioni/00)”.
Al centro della presente controversia sono gli effetti, su tale obbligazione, dell’entrata in vigore dell’art. 9 del D.L. 12.07.2018 n. 87 che ha previsto, “ai fini del rafforzamento della tutela del consumatore e per un più efficace contrasto del disturbo da gioco d’azzardo… (che) … è vietata qualsiasi forma di pubblicità anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite in denaro nonché al gioco d’azzardo comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e i canali informatici, digitali e telematici, compresi i social media…”
Proprio in base a tale nuova disciplina normativa, con le note del 18.12.2020 e del 5.02.2021 l’Agenzia delle dogane ha, dunque, richiesto all’appellante la somma di € 24.288.420,22 quale importo di spesa che la società stessa era tenuta a stanziare nell’arco temporale di riferimento (1°luglio 2018 – 30 giugno 2020) per le finalità di comunicazione e informazione e che, a causa del divieto di pubblicità, non aveva potuto utilizzare.
Contro tali provvedimenti la Sisal Lottery Italia s.p.a. ha proposto in primo grado ricorso dinanzi al TAR Lazio, sostenendo che l’Amministrazione, nel richiederle le somme de quibus, avesse agito in violazione della clausola del suddetto art. 15 della convenzione, che prevedeva a suo carico, in qualità di concessionaria, un obbligo di investimenti pubblicitari da adempiere con risorse proprie, poiché tale obbligazione era divenuta impossibile per factum principis e si era, quindi, estinta, con conseguente non debenza delle relative somme da parte sua all’erario.
Il TAR, dopo aver sospeso in via cautelare il provvedimento, ha rigettato il ricorso proposto in primo grado, affermando la giurisdizione del G.A. sulla controversia e ritenendo che “le somme raccolte tramite il gioco … (entrassero) nella disponibilità del concessionario e questi poi … (fosse) tenuto a investirle, nei limiti della quota offerta (1,82%), nella campagna di informazione e di comunicazione secondo il piano dei progetti e delle iniziative concordato con l’ente concedente. Ciò comporta(va) che la somma offerta per le campagne di comunicazione e di informazione non rappresenta(sse) parte dell’aggio che spetta(va) al concessionario (3,73% calcolato sulla raccolta dell’anno in corso) sul cui mantenimento questi … (avrebbe potuto) fare affidamento in caso di sopravvenuta inesigibilità o impossibilità della controprestazione dovuta. Si tratta(va), invece, di parte del gettito del gioco che il concessionario … (aveva) riscosso presso il pubblico nella sua qualità di agente contabile per conto e nell’interesse del concedente. Il che conduce(va) ad affermare che, in caso di mancato investimento della somma vincolata, la stessa … (avrebbe dovuto essere) restituita all’Erario in quanto parte del gettito del gioco. Sul concessionario grava(va) un obbligo di restituzione di somme riscosse per conto terzi e non già di corresponsione di somme per attività dovute e in ipotesi divenute non più esigibili.
L’appellante ha dedotto l’erroneità di tale pronuncia che non avrebbe, in primo luogo, considerato che l’obbligazione relativa alle spese per interventi di comunicazione ed informazione era stata fissata con apposita determinazione dell’Amministrazione del 7.11.2018 nella somma massima di 14.502.000,00 proprio a causa della sopravvenienza del cd. “Decreto dignità” e dell’abolizione della possibilità di investire in pubblicità e sponsorizzazione del gioco. Con tale provvedimento sarebbe stato modificato il rapporto concessorio, cosicché la successiva richiesta di restituzione di somme ulteriori sarebbe stata contraria anche al legittimo affidamento del concessionario.
L’appellante ha, altresì, sostenuto l’erroneità della decisione dei giudici di prime cure per non aver riconosciuto che la pretesa dell’Amministrazione di restituzione della somma non utilizzata per gli interventi di comunicazione e informazione era infondata, perché la somma faceva parte del corrispettivo spettante al concessionario, che non avrebbe potuto veder ridotti per effetto del cd. “Decreto dignità” gli importi a sé spettanti, a fronte di un arricchimento senza causa dell’Amministrazione.
La tesi che qualificava il concessionario come “mandatario” dell’Amministrazione per le spese di comunicazione ed informazione sarebbe stata anch’essa, da tale punto di vista, erronea e fuorviante, in quanto non avrebbe tenuto conto del fatto che il concessionario aveva assunto ai sensi della convenzione per tali spese un’obbligazione da adempiere con risorse proprie, e che queste avrebbero dovuto restare in suo possesso in caso di impossibilità sopravvenuta dell’adempimento per factum principis.
La pronuncia appellata sarebbe stata, inoltre, errata nella parte in cui aveva escluso che, nel caso di specie, potesse rinvenirsi un inadempimento non imputabile al concessionario ex art. 1256 c.c. e, infine, anche per l’omesso esame del motivo proposto circa l’idoneità delle somme comunque investite ad adempiere l’obbligazione dopo l’adozione del “Decreto dignità”, stante l’inesigibilità dell’utilizzo di importi maggiori di quelli effettivamente spesi dal concessionario.”, si legge nella sentenza.
“Alla luce degli atti di causa, le suddette cesure si rivelano fondate e meritevoli di accoglimento nei seguenti termini.
La tesi accolta dal TAR, per cui gli impegni che il concessionario aveva assunto nell’art. 15 della convenzione non avrebbero riguardato lo svolgimento di forme di pubblicità per scopi commerciali, bensì di campagne di comunicazione e di informazione sulle modalità di gioco in favore del pubblico ancora consentite anche dopo l’introduzione del divieto di cui all’art. 9 del DL n. 87/2018 e secondo la quale, laddove il concessionario non fosse stato in grado di individuare iniziative ancora legittime tali da giungere ad una spesa pari al plafond (1,82% della raccolta dell’anno precedente) la restante parte delle somme, non investite per scopi istituzionali, avrebbe dovuto essere restituita all’amministrazione stessa, in quanto denaro pubblico quota-parte del gettito derivante dalla raccolta del gioco tra il pubblico, contrasta, infatti, con quanto emerge dal contenuto della convenzione che inserisce lo “stanziamento” di “un importo pari al valore percentuale della raccolta dell’anno precedente di 1,82% per la realizzazione degli interventi di comunicazione e di informazione (senza ulteriori specificazioni e distinzioni) tra tutti gli “impegni del concessionario”, che questi è chiamato a sostenere nello svolgimento dell’attività di raccolta e gestione dei giochi pubblici che gli compete.
Dal testo della convenzione la spesa per l’attività promozionale risulta, in realtà, un vero e proprio investimento del concessionario, rientrante nell’esercizio della sua attività imprenditoriale, senza che nessuna delle espressioni usate dalle parti nella convenzione stessa autorizzi a giungere alla conclusione, posta dal TAR a fondamento del suo ragionamento, che per tale investimento avrebbero dovuto essere utilizzate risorse in realtà fornite dall’amministrazione, semplicemente “trattenute in più” e in via provvisoria dal concessionario, da corrispondere nuovamente all’erario ove non impiegate per gli scopi prefissati a causa del divieto di pubblicità dei giochi introdotto dal “Decreto dignità”, come restituzione della provvista di un mandato divenuto inattuabile.
Oltre alla mancanza in atti di qualsiasi elemento in grado di richiamare direttamente o indirettamente la fattispecie del mandato, per l’erroneità di tale interpretazione depone, in primo luogo, il dettato letterale della convenzione che, come evidenziato, ricomprende l’investimento degli importi per la pubblicità tra gli obblighi del concessionario (art. 15 cit.) e “a fronte degli adempimenti connessi all’affidamento delle attività e delle funzioni previste dalla concessione per ciascuno dei giochi numerici a totalizzatore nazionale… (attribuisce al) …concessionario un compenso pari… all’aliquota percentuale pari al 3,73% degli importi complessivi delle giocate raccolte attraverso la rete distributiva, indicata nell’offerta economica come compenso…” (art. 24 comma 1 della convenzione).
Il suddetto corrispettivo dovuto al concessionario risulta unitariamente e complessivamente considerato ed è accompagnato soltanto dalla specificazione del fatto di ricomprendere “anche i compensi dei punti di vendita fisici”, senza alcuna ulteriore precisazione, né alcun cenno alle spese pubblicitarie.
Un’attenta lettura congiunta dell’art.24 cit. e del già ricordato art. 15 della convenzione conduce, dunque, a non poter in alcun modo condividere le argomentazioni sostenute dalla difesa erariale e fatte proprie dai giudici di prime cure circa lo scorporo della percentuale dell’1,82% da destinare alle spese pubblicitarie – dall’aggio (che si ridurrebbe senza alcuna espressa previsione della convenzione), essendo quest’ultimo predeterminato in base all’offerta economica ed alle risultanze della gara espletata, cristallizzate nella convenzione, e rappresentando l’individuazione degli importi per le attività di promozione attraverso il riferimento ad una percentuale della raccolta dell’anno precedente solo una tecnica di calcolo degli importi stessi, che nulla dice sulla spettanza delle risorse ove, come nel caso de quo, divenute in seguito inutilizzabili per il fine programmato per factum principis.
Al riguardo occorre, inoltre, precisare l’erroneità, anche sotto un distinto profilo, della pronuncia appellata nella parte in cui per rafforzare la tesi del mandato, riconduce alla sola amministrazione l’interesse a pubblicizzare i giochi, condiviso, invece, anche dal concessionario, mosso, in ogni caso, dal fine di massimizzare il proprio profitto e tenuto a rispettare il minimo garantito contrattuale.
In tale prospettiva trovano, in verità, una ragionevole spiegazione anche gli obblighi di rendicontazione preventiva e successiva dell’attività promozionale previsti nella convenzione, che non risultano certo in grado di ricondurre direttamente all’amministrazione le risorse utilizzate per l’assolvimento degli impegni pubblicitari, ma si giustificano quale forma di controllo da parte dell’autorità pubblica al rispetto del limite posto all’utilizzo dei mezzi privati e quale strumento per assicurare che politiche volte alla massimizzazione dei profitti non vadano a detrimento della salvaguardia della salute ex art. 32 della Costituzione, rischiando di alimentare il pericoloso fenomeno della ludopatia.
Dalle argomentazioni che precedono derivano la sussumibilità delle spese in questione tra le obbligazioni proprie del concessionario, da sostenersi con fondi propri, la fondatezza, come anticipato, dell’appello e la declaratoria dell’illegittimità degli atti impugnati con il ricorso di primo grado, nei quali l’Amministrazione si è limitata a chiedere la “restituzione” di tutte le somme originariamente destinate ad attività pubblicitarie e non spese per il sopravvenuto divieto imposto dal “Decreto dignità” in base ad un preteso mandato ad investire in tale settore, che non ha trovato alcuna conferma dalla disciplina convenzionale e legislativa in materia.
In riforma della sentenza appellata tali atti devono, quindi, essere annullati, salva la necessità per le parti di risolvere il problema della spettanza degli importi “risparmiati” a causa del divieto posto dal “Decreto dignità” attraverso le regole proprie della sopravvenuta impossibilità parziale delle obbligazioni e, nell’eventualità, tramite la procedura di riequilibrio economico finanziario delle concessioni di cui all’art. 165 comma 6 del d.lgs. n. 50/2016″, conclude. cdn/AGIMEG