“La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 185 del 2021, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione che prevede la sanzione amministrativa fissa a carico dei concessionari del gioco e dei titolari di sale giochi e scommesse per la violazione degli obblighi di avvertimento sui rischi di dipendenza dal gioco d’azzardo (ludopatia) in quanto la fissità del trattamento sanzionatorio impedisce di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti. La Corte ritiene che il deficit di tutela conseguente all’ablazione della norma denunciata non renda indispensabile la ricerca di soluzioni sanzionatorie alternative, costituzionalmente adeguate, trattandosi di violazioni di obblighi informativi a carattere preventivo, in ordine alle quali spetterà al legislatore determinare il trattamento sanzionatorio entro una cornice edittale compresa tra un minimo e un massimo”. E’ quanto sottolineato nel Dossier “Il controllo di costituzionalità delle leggi rassegna trimestrale di giurisprudenza costituzionale anno I numero 3 – luglio-settembre 2021 pubblicato alla Camera. “Oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è l’articolo 7, comma 6, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189, nella parte in cui, al secondo periodo, punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria pari a cinquantamila euro l’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 5 del medesimo articolo, le quali prevedono, a carico di coloro che offrono giochi o scommesse con vincite in denaro, una serie di obblighi a carattere informativo, intesi a porre sull’avviso il fruitore riguardo ai rischi di dipendenza da una simile pratica”, continua. “Il giudice a quo ha promosso questioni di legittimità costituzionale ritenendo che la norma censurata violerebbe, anzitutto, l’art. 3 della Costituzione, per contrasto con il principio di eguaglianza. Prevedendo una sanzione fissa di «eccezionale severità», essa non consentirebbe, infatti, di graduare la risposta sanzionatoria in rapporto al disvalore delle singole violazioni, il quale potrebbe risultare significativamente diverso in relazione alle circostanze del caso concreto. La disposizione denunciata si porrebbe in contrasto anche con il principio di ragionevolezza, desumibile dallo stesso art. 3 Cost., apparendo la sanzione in discorso sproporzionata rispetto a quella contemplata per altre fattispecie di non minore gravità, quale quella di cui all’art. 24, comma 21, del decretolegge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, che punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da cinquemila a ventimila euro chi consente la partecipazione ai giochi pubblici a minori di anni diciotto. Il rimettente denuncia, da ultimo, la violazione dell’art. 3 Cost. in combinato disposto con gli artt. 41 e 42 Cost., nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmato a Parigi il 20 marzo 1952, e agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, «quali norme che in ambito europeo tutelano il diritto di proprietà e il diritto d’impresa». La sanzione in questione, in ragione del suo importo, potrebbe, infatti, incidere irragionevolmente, sia sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito, sia sul suo diritto di esercitare liberamente un’attività di impresa, essendo in grado di provocare una «irreversibile crisi aziendale», almeno quando l’esercizio commerciale coinvolto sia di modeste dimensioni, come nel caso oggetto del giudizio a quo”, aggiunge. “La Corte ha ritenuto fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, con assorbimento delle ulteriori questioni. Alla luce della propria consolidata giurisprudenza, la Corte ricorda che il principio – in origine enunciato con riferimento alle sanzioni penali – di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito è applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative. Sottolinea peraltro che, rispetto a tali sanzioni, il principio di proporzionalità trova la sua base normativa nell’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione, che, nel caso in esame, il giudice a quo identifica nel diritto di proprietà e nella libertà di iniziativa economica. La Corte ritiene inoltre che l’attribuzione al giudice di un margine di discrezionalità nella commisurazione della sanzione – non solo penale, ma anche amministrativa – tra un minimo e un massimo, così da adeguarla alla specificità del singolo caso, rappresenti la naturale attuazione di principi costituzionali. Con riguardo alla “fissità” della sanzione – non suscettibile di graduazione da parte dell’autorità amministrativa, e del giudice poi, in correlazione alle specifiche circostanze del caso concreto – la Corte ricorda infatti la propria giurisprudenza relativa alle sanzioni penali, nella quale è stato più volte messo in luce come la «mobilità» (sentenza n. 67 del 1963), o «individualizzazione» (sentenza n. 104 del 1968), della pena costituisca «naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale» e che tale considerazione possa essere estesa anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo. Secondo la ricordata giurisprudenza costituzionale infatti, anche in questo campo «previsioni sanzionatorie rigide, […] che colpiscono in egual modo, e quindi equiparano, fatti in qualche misura differenti, debb[o]no rispondere al principio di ragionevolezza» (sentenza n. 212 del 2019). In ragione di ciò la Corte sottolinea l’esigenza di verificare «se anche le infrazioni meno gravi», tra quelle comprese nel perimetro applicativo della previsione sanzionatoria, «siano connotate da un disvalore tale da non rendere manifestamente […] sproporzionata la sanzione amministrativa» comminata. La Corte ritiene, quindi, nel caso all’esame, che la fissità del trattamento sanzionatorio impedisca di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti con la conseguenza che la reazione sanzionatoria possa risultare manifestamente sproporzionata per eccesso rispetto al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa della norma. La Corte sottolinea inoltre come non rappresenti un ostacolo alla declaratoria di illegittimità costituzionale la considerazione che nel sistema vigente non si rinvengano soluzioni sanzionatorie che possano essere sostituite, ad opera della Corte stessa, a quella dichiarata costituzionalmente illegittima, in ragione dell’assimilabilità delle condotte sanzionate. L’esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, secondo l’argomentazione della Corte, si pone imprescindibilmente solo quando la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, comportasse una menomazione nella protezione di diritti fondamentali dell’individuo o di beni di particolare rilievo per l’intera collettività, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali. Al riguardo la Corte ritiene che nella fattispecie oggetto del giudizio non sia ravvisabile una simile ipotesi, in quanto pur essendo la tutela della salute, nella cui cornice si inscrivono le misure intese a contrastare il gioco d’azzardo patologico (sentenze n. 27 del 2019, n. 108 del 2017 e n. 300 del 2011), «obiettivo di sicuro rilievo costituzionale», nel caso di specie si tratta di condotte sensibilmente antecedenti la concreta offesa all’interesse protetto. La Corte conclude dunque sottolineando come spetti al legislatore determinare, nel rispetto dei principi costituzionali, una diversa sanzione per i comportamenti considerati, stabilendone i relativi limiti minimo e massimo”, conclude. cdn/AGIMEG