Decreto Dignità, AGCOM: violazione divieto pubblicità gioco, oltre 2 milioni di multa per Google. I dettagli sulla sanzione

L’Agcom, Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ha ordinato alla società Google Ireland Limited di pagare la sanzione amministrativa di 2.250.000 euro per la violazione del divieto di pubblicità del gioco d’azzardo previsto nel Decreto Dignità.

Nello specifico all’esito dell’attività di verifica e accertamento svolta a seguito del ricevimento di alcune segnalazioni aventi ad oggetto condotte rilevanti ai fini del rispetto del divieto sancito dall’art. 9 del decreto dignità poste in essere da Google in relazione alla piattaforma di condivisione di video YouTube, è stata riscontrata la presenza di numerosi canali contenenti molteplici video con contenuto di promozione o comunque di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro ovvero di invito alla pratica del gioco d’azzardo.

La società è stata ritenuta responsabile in quanto titolare del mezzo di diffusione dei video pubblicati da soggetti terzi e con i quali aveva specifici contratti di partnership commerciale.

Ecco quanto si legge nella delibera:

Fatto, attività preistruttoria e contestazione

A partire da giorno 2 agosto 2022 e sino a giorno 17 marzo 2023 sono pervenute diverse segnalazioni all’Autorità (prot. n. 219127, n. 219200 e n. 218358 del 14 luglio 2022, prot. n. 237586 e n. 239679 del 2 agosto 2022, prot.n. 241726 dell’8 agosto 2023, prot. n. 242415, n. 242416, n. 242418, n. 242456, n. 242896 e n. 242898 del 9 agosto 2022, prot. n. 245915 del 19 agosto 2022, n. 246548, n. 246541 e n. 246694 del 22 agosto 2022, n. 247630 del 24 agosto 2022, n. 248341 e n. 248373 del 25 agosto 2023, n. 248466 del 26 agosto 2022, n. 250243, n. 250754, n. 250762, n. 250765 e n. 251255 del 31 agosto 2022, n. 253215 del 2 settembre 2022, n. 254532 del 5 settembre 2022, n. 303212 del 21 ottobre 2022, prot. n. 75984 del 17 marzo 2023) nelle quali venivano denunciate presunte violazioni dell’art. 9 del decreto dignità effettuate attraverso la piattaforma per la condivisione di video YouTube in relazione a pubblicità di vincite realizzate su casinò online e, più in generale, del gioco d’azzardo. A valle dell’attività preistruttoria, l’Autorità, esaminate ed aggregate le richiamate segnalazioni ai sensi dell’articolo 4, comma 6 del Regolamento Sanzioni, ha contestato a Google, “proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione” YouTube, la violazione dell’articolo 9 del Decreto dignità, per aver consentito la diffusione, sul predetto servizio “YouTube”, di pubblicità di siti che svolgono attività di gioco e scommessa a pagamento, notificando, in data 25 aprile 2023, l’atto di contestazione n. 05/25/DSDI. Più precisamente, dalla navigazione del servizio di piattaforma per la condivisione di video “YouTube”, è emersa la violazione dell’articolo 9 del decreto dignità attraverso migliaia di video (circa 23 mila) diffusi tramite 48 (quarantotto) canali YouTube. In particolare, la tabella sottostante riporta l’elenco puntuale dei suddetti canali (con l’indicazione del relativo URL e del numero di iscritti alla data dell’ultima rilevazione) e il numero dei video rilevati in presunta violazione della norma in oggetto (l’elenco puntuale degli URL dei singoli video in violazione è riportato nel corrispondente allegato):

Con il menzionato atto di contestazione, è stato accertato e contestato il fatto che in ciascuno dei 48 canali sopra identificati, vengono promossi, mediante i video caricati quotidianamente, molteplici siti di gioco con vincite in denaro, prevedendo, altresì, la possibilità di abbonarsi al singolo canale, pagando direttamente il fornitore del servizio di condivisione video YouTube.

Deduzioni difensive e informazioni fornite dalla società

In data 10 maggio 2023 Google ha presentato una richiesta di accesso agli atti del procedimento (prot. n. 125705), a cui è stato dato riscontro con nota 24 maggio 2023 (prot. n. 140395), dando accesso per via telematica ai documenti del fascicolo procedimentale. Successivamente con nota del 13 giugno 2023, Google ha presentato le proprie memorie difensive ai sensi dell’articolo 9, comma 1, del Regolamento Sanzioni. 2.1.Osservazioni generali Google, in primis, ha osservato che i canali oggetto di contestazione dovrebbero essere 47 in luogo dei 48 riportati nell’atto di contestazione in quanto tra questi il “canale “DCB team” è stato indicato due volte (precisamente alla riga 10 e alla riga 25), seppure con un nome e un URL leggermente diversi”. Inoltre, con riferimento al numero dei video, a fronte dei 23.274 video identificati nell’atto di contestazione, Google ha segnalato la presenza di alcuni duplicati, osservando, quindi, che il numero finale dei video identificati dall’Autorità è pari a 22.719 che “avrebbero promosso o pubblicizzato, anche indirettamente, giochi o scommesse con vincite in denaro, ovvero avrebbero invitato alla pratica del gioco d’azzardo”. Ciò premesso, Google ha sottolineato, come già anticipato in data 15 maggio 2023 (prot. n. 130090) di aver immediatamente provveduto, a seguito della segnalazione dell’Autorità, a impedire l’accesso dal territorio italiano a 22.719 video (di seguito Video Contestati) e a 47 canali YouTube (di seguito Canali Contestati). 2.2. I canali contestati Con particolare riferimento all’attività istruttoria Google ha rilevato, a fronte dei 47 canali YouTube contenenti video in asserita violazione dell’articolo 9 del Decreto Dignità, di non aver compreso il discrimine sulla base del quale l’Autorità abbia identificato i canali e i rispettivi video oggetto di Contestazione, rispetto agli altri pure oggetto di segnalazione degli utenti. Al riguardo, osserva la società, molti dei canali contestati non sono “interamente” dedicati al gioco d’azzardo. Alla luce di quanto sopra, Google lamenta il discrimine in virtù del quale i canali dal “contenuto di vario genere” non siano stati inclusi nella Contestazione, mentre altri canali vi siano rientrati pur presentando al loro interno video dal contenuto di vario genere. In tal senso, giova altresì sottolineare che gli utenti (che, nel momento in cui caricano un contenuto sulla piattaforma, vengono definiti “Creator”) possono utilizzare i loro canali per pubblicare contenuti di vario tipo (e del tutto leciti) e dunque ordinare la rimozione di interi canali può rappresentare una misura eccessiva e sproporzionata. Ciò posto, aggiunge Google che non tutti i canali contestati fanno parte del YouTube Partner Program (“YPP”) ossia il programma che offre ai Creator la possibilità di monetizzare i propri contenuti e di accedere a team di assistenza dedicati. Infatti, solo 27 sono Partner Verificati aderenti al programma YPP. Tale circostanza, a dire di Google, assume particolare rilevanza in quanto esclude l’applicazione, nel caso di specie, delle conclusioni (errate e censurate dal TAR) sulle quali si basava la delibera n. 275/22/CONS del 19 luglio 2022, nell’ambito della quale l’Autorità aveva escluso l’esenzione di responsabilità dell’hosting provider con riferimento ai soli canali “verificati” alla luce di un’asserita (e in realtà inesistente) verifica in capo a Google sui contenuti caricati dagli utenti che aderiscono allo YPP, nonché di uno specifico contratto stipulato tra le parti ai fini dell’adesione al programma YPP. Ciò rilevato, Google sostiene che nessuna responsabilità può essere mossa nei suoi confronti per i restanti 20 canali non verificati. Da ultimo, osserva Google che “la circostanza che i video in discorso non possano essere considerati “manifestamente” illeciti, ricadendo invece nella “zona grigia” ove il bilanciamento tra diritti e interessi deve essere svolto dall’Autorità competente, è confermata dalla discrasia tra i video che sono stati oggetto di segnalazioni da parte degli utenti e i video effettivamente inclusi nella Contestazione dell’Autorità”. Dall’analisi delle segnalazioni trasmesse dagli utenti, emerge che l’Autorità non ha incluso tutti i canali e/o video segnalati dagli utenti nella Contestazione. Ciò, sostiene Google, è sufficiente a dimostrare che per determinare l’eventuale illiceità di video (o addirittura di interi canali) presenti sulla piattaforma YouTube non basti la sensibilità richiesta ad un hosting provider come Google, ma sia necessaria una valutazione dell’Autorità. Conclude, quindi, rilevando che affinché sorga in capo al provider un obbligo di rimozione su istanza di parte, l’illiceità di un contenuto deve essere “manifesta”, risultare cioè evidente al di là di ogni ragionevole dubbio, senza richiedere al gestore della piattaforma un esame giuridico dettagliato. Nei canali contestati, osserva Google, è difficile qualificare i video come “pubblicità”; a ciò aggiunge che occorre notare come l’eventuale rimozione potrebbe integrare un’indebita compressione della libertà di espressione degli utenti. 2.3. Sul ricorso attualmente pendente dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Prima di entrare nel merito delle contestazioni, Google ritiene utile ricordare che dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio è attualmente pendente il ricorso promosso da Google avverso la delibera n. 275/22/CONS del 19 luglio 2022. Al riguardo, ha ricordato che il 24 novembre 2022, il TAR ha accolto l’istanza cautelare di sospensione del provvedimento impugnato da Google, ravvisando profili di fondatezza del ricorso pendente, il quale, “alla luce del precedente orientamento della sezione III Ter del Tar del Lazio, espresso con la sentenza n. 11036 del 2021 che, a giudizio del Collegio, merita di essere confermato nella parte in cui, essendo stato qualificato in termini di “hosting provider” il servizio fornito da Google, è stata esclusa la responsabilità del gestore della piattaforma internet per i contenuti illeciti che sulla stessa siano stati inseriti da terzi, ritenuto, in particolare, che nella fattispecie non appare rilevante, per affermare il ruolo attivo dell’hosting provider, la circostanza della conclusione di un contratto di partnership con l’utente, considerato che tale contratto attribuisce al creator la responsabilità legale dei contenuti immessi e che i controlli del gestore della piattaforma sembrano limitarsi al rispetto delle condizioni di adesione, con riferimento al numero di visualizzazioni et similia, senza estendersi alla verifica del contenuto dei video”. A ciò ha aggiunto che il medesimo TAR per il Lazio ha altresì annullato una precedente sanzione nei confronti di Google per pretesa violazione del Decreto Dignità (per Google Ads), a motivo della qualifica della Società quale hosting provider passivo. 2.4. Sulla responsabilità della società Google per i video contestati Con specifico riferimento alla responsabilità per i video contestati, la società ha osservato che i video de quibus non sono annunci pubblicitari creati e qualificati come tali dagli utenti, ma normali video caricati sulla piattaforma dai creator stessi (i.e. “user generated content” o “UGC”). In merito, ha rilevato la mancanza di ogni tipo di accordo pubblicitario tra i creators autori dei video contestati e YouTube, né tra YouTube e le società che mettono a disposizione i servizi citati o mostrati all’interno dei video contestati. Inoltre, prima della Contestazione la società non ha ricevuto alcun ordine di rimozione dei video contestati da parte di un tribunale o di un’Autorità e, pertanto, non aveva alcuna conoscenza del loro contenuto. Google ha osservato al riguardo che nell’ipotesi in cui l’Autorità giungesse a ritenerla responsabile di contenuti di cui non aveva alcuna conoscenza prima del ricevimento della Contestazione, si introdurrebbe nell’ordinamento una responsabilità oggettiva in capo alla Società, in aperta violazione, da un lato, delle norme nazionali ed europee che definiscono il regime di responsabilità dell’hosting provider di cui agli articoli 6 e 8 del Regolamento UE 2022/2065 e, ancora prima, degli articoli 16 e 17 del D.lgs. 70/03, che avevano recepito gli articoli 14 e 15 della Direttiva sul Commercio Elettronico 2000/31/CE e, dall’altro, della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della giurisprudenza dei Tribunali italiani e, in definitiva, delle stesse disposizioni contenute nel Decreto Dignità e nelle relative Linee Guida dell’AGCOM. In particolare, osserva Google che le sopraccitate disposizioni del DSA, della ECD e del D.lgs. 70/03 vietano che gli hosting provider possano essere considerati responsabili dei contenuti generati dagli utenti come i Video Contestati a meno che non rimuovano quei contenuti non appena giunti a effettiva conoscenza della loro illiceità. Inoltre, gli hosting provider non possono essere destinatari di obblighi di monitoraggio o ricerca attiva. A ciò, ha aggiunto che la propria qualifica di hosting provider gli attribuisce pienamente il titolo a beneficiare del relativo regime di responsabilità con riferimento ai contenuti ospitati sulla piattaforma di YouTube. Ricorda al riguardo che sin dal 2010, infatti, la decisione Google contro Louis Vuitton (C-236/08) della Corte di Giustizia ha ribadito l’impossibilità di ritenere Google responsabile per le pubblicità generate dagli utenti create attraverso i suoi servizi e ospitate sui suoi server in forza di un contratto tra Google e l’inserzionista. Parimenti, con la decisione Google contro Peterson del 2021 (C‑682/18 e C‑683/18), la Corte di Giustizia ha ribadito il medesimo concetto proprio rispetto a contenuti illeciti ospitati su YouTube, confermando che in capo al provider non sorge alcun obbligo (e, quindi, alcuna responsabilità) sino a che esso non sia messo effettivamente al corrente dell’illiceità dei singoli contenuti ospitati sui suoi server. Da ultimo, conclude Google, anche la puntuale censura ad opera del TAR del Lazio nel novembre 2022 si pone sulla medesima linea in quanto ha sospeso in via d’urgenza la delibera n. 275/22/CONS del 19 luglio 2022, ribadendo la natura di Google quale hosting provider e la relativa applicazione dell’esonero di responsabilità per i video generati dagli utenti caricati sulla piattaforma YouTube. Alla luce di tali pronunce Google chiede quindi all’Autorità di conformarsi anche nel caso de quo al regime di responsabilità sovra esposto. 2.5. Sul funzionamento di YouTube e sulle Norme di Google riguardo alla pubblicità del gioco d’azzardo e ai contenuti promozionali su YouTube. Google ritiene opportuno fornire degli approfondimenti circa il meccanismo di funzionamento della propria piattaforma di condivisione di video YouTube. Sul punto rileva che detta piattaforma permette agli utenti di pubblicare e guardare contenuti audiovisivi caricati a loro volta da altri utenti o terze parti. Ogni giorno, milioni di persone usano YouTube per condividere video originali e favorendo la circolazione delle informazioni. In particolare, ogni minuto vengono caricate sulla piattaforma più di 500 ore di contenuti. Gli utenti possono guardare i contenuti su YouTube senza la necessità di creare un account. Tuttavia, molte delle funzioni di YouTube, come i video preferiti, i video da segnalare e le sottoscrizioni ad altri canali, richiedono che gli utenti accedano a YouTube utilizzando il loro account Google. Avere un canale, osserva la Società, permette agli utenti di caricare e pubblicare i propri video, di commentare i video di altri utenti o di creare playlist. Inoltre, tutti gli utenti che caricano contenuti sulla piattaforma sono soggetti ai termini di Servizio di YouTube, accettando i quali, gli utenti confermano che tali contenuti sono sotto la loro responsabilità. Detti termini, continua Google, prevedono altresì esplicitamente che gli utenti del servizio non hanno l’autorizzazione “a pubblicare sul Servizio Contenuti che non rispettano il presente Contratto o la legge”. Inoltre, tutti gli utenti della piattaforma devono attenersi alle Linee Guida della Community di YouTube, ossia una serie di previsioni che affrontano questioni riguardanti il caricamento di contenuti sensibili, contenuti violenti o pericolosi, contenuti di disinformazione, nonché contenuti che comportano spam o pratiche ingannevoli e contenuti riguardanti beni regolamentati. In sintesi, osserva Google, le Linee Guida stabiliscono cosa possa essere pubblicato su YouTube e cosa no, al fine di garantire che YouTube rimanga uno spazio sicuro per tutti. Ciò posto, la società intende illustrare la differenza tra gli annunci eventualmente associati ad un video e il contenuto di un video che può promuovere beni o servizi. Per quanto riguarda gli annunci, rileva che questi possono essere pubblicati in associazione a video pubblicati su YouTube e su siti web e applicazioni per dispositivi mobili dei partner video Google da tutti gli inserzionisti di Google con un account Google AIDS. Gli annunci sono creati autonomamente dall’inserzionista, che ne determina le caratteristiche attraverso un processo completamente automatizzato e senza alcun intervento da parte di Google. Per pubblicare un annuncio su Google Ads, gli inserzionisti devono registrarsi sulla piattaforma Google Ads creando un account e accettando i Termini e Condizioni di Google Ads, che includono le norme pubblicitarie di Google contenenti informazioni dettagliate sulle attività vietate o soggette a restrizioni. Inoltre, Google osserva che tra le norme in questione vi sono, tra l’altro, le categorie proibite di contenuti, tra le quali figurano, in modo espresso, gli annunci che promuovono il gioco d’azzardo non ammessi dalla normativa applicabile, compresi il gioco d’azzardo offline, il gioco d’azzardo online, i giochi online non-casinò e i giochi di casinò sociali, ad esclusione delle lotterie statali promosse da enti certificati (in conformità alla normativa applicabile). Per quanto riguarda, invece, il contenuto di video che possono promuovere beni o servizi, la società rileva che gli utenti di YouTube sono tenuti ad accettare le norme sulla vendita di prodotti e servizi regolamentati o illegali, che non consentono contenuti che rimandano a un sito di gioco d’azzardo o di scommesse sportive online, salvo che essi rientrino tra le eccezioni previste dalle leggi applicabili, incluse quelle per le lotterie statali espressamente previste dal Decreto Dignità. Per verificare che i contenuti siano conformi alle norme della piattaforma, gli inserzionisti sono obbligati a notificarli preventivamente a Google, attraverso un modulo web specifico. Ne discende, a detta di Google, che solo se e quando gli inserzionisti informano Google attraverso la compilazione di tale modulo, la Società è in grado di verificarne la conformità. Al contrario, nel caso in cui gli inserzionisti non effettuino tale notifica, Google non verrebbe a conoscenza dei contenuti in questione e non potrebbe quindi esserne considerata responsabile in base al regime di responsabilità dell’hosting provider di cui si è sopra detto. Nel caso di specie, osserva Google, nessuno degli utenti che ha pubblicato i video contestati ha effettuato alcuna notifica a Google. Inoltre, gli utenti possono facilmente segnalare qualsiasi contenuto che violi questa norma; pertanto, se gli autori intendono promuovere un bene o un servizio nei loro video, devono manifestare la loro intenzione, in conformità con le norme di YouTube in materia di posizionamenti di prodotti a pagamento e sponsorizzazioni. A ciò Google aggiunge che come chiaramente spiegato nella relativa pagina di supporto: “(i) le inserzioni di prodotti a pagamento sono parti di contenuti creati per un terzo in cambio di un compenso. Ciò vale anche quando il marchio, il messaggio o il prodotto della terza parte è inserito direttamente nel contenuto; (ii) gli endorsement sono contenuti creati per un inserzionista con un messaggio che gli utenti possono credere rifletta le opinioni dell’autore del contenuto; e (iii) le sponsorizzazioni sono parti di contenuto che sono state finanziate in tutto o in parte da una terza parte”. Secondo questa previsione, conclude Google, gli autori che includono l’inserimento di prodotti a pagamento, l’endorsement o la sponsorizzazione, devono dichiararlo selezionando la casella di promozione a pagamento nei dettagli del loro video. Questo è l’unico modo per far sapere a Google che il contenuto caricato liberamente e autonomamente dall’utente è una promozione a pagamento. Parimenti, anche l’inserimento di posizionamenti di prodotti a pagamento deve essere conforme alle norme pubblicitarie di Google e le Linee Guida della Community. Google, ribadisce quindi che sono gli autori dei video e i titolari dei prodotti promossi i soli responsabili e che è impossibile per Google controllare a priori se il contenuto promosso violi o meno le norme di YouTube. Inoltre, la società osserva di avere un meccanismo di sanzioni in base al quale se è la prima volta che l’autore viola le Linee Guida della comunità di YouTube, riceverà un avviso senza alcuna penalità per il canale. Se non è la prima volta, Google emetterà un avvertimento nei confronti del canale. Se l’autore riceve tre avvertimenti, il canale sarà definitivamente sospeso. Dal momento che i Creator non hanno selezionato la casella della promozione a pagamento nei dettagli relativi ai video contestati e prima della Contestazione, codesta Autorità, nè altre autorità eventualmente competenti, hanno mai segnalato a Google la presenza di tali contenuti, Google sostiene di non poter essere in alcun modo a conoscenza dei presunti contenuti illeciti e che – in ogni caso e perfettamente in linea con il regime di responsabilità stabilito dall’articolo 16 del D. Lgs. 70/2003 – questi sono stati immediatamente rimossi non appena Google è stata avvisata dall’Autorità della potenziale violazione. 2.6. Sulla qualifica di Google quale hosting provider e sul regime generale di esenzione di responsabilità dall’obbligo generale di controllo delle informazioni memorizzate In relazione alla piattaforma di condivisione video YouTube, Google dichiara di considerarla pacificamente un hosting provider, in quanto si tratta di un servizio che fornisce agli utenti e ai Creator uno “spazio virtuale” dove gli stessi possono condividere i loro video sotto la loro esclusiva responsabilità. Per questi servizi, osserva la società, il DSA, la Direttiva sul commercio elettronico 2000/31/CE e il Decreto Legislativo 70/2003 prevedono espressamente un regime speciale di responsabilità. L’estraneità del soggetto che offre lo spazio di memorizzazione di contenuti generati dagli utenti è una circostanza necessaria e sufficiente per qualificare Google quale hosting provider ai sensi dell’articolo 6 del DSA e dell’articolo 16 del D. Lgs. 70/2003, secondo cui “Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio”. In particolare, ai sensi dell’articolo 14 della direttiva e-commerce l’hosting provider non è responsabile dei contenuti illeciti caricati sul suo sito a meno che non venga a conoscenza dell’esistenza di tali contenuti e, dopo esserne venuta a conoscenza, non li rimuova prontamente dalla piattaforma. Inoltre, gli articoli 8 del DSA e 17 del D.lgs. 70/2003 prevedono che l’hosting provider non ha un obbligo generale di controllare le informazioni memorizzate, né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino un’attività illecita. Ne discende pertanto a detta di Google che la stessa non è responsabile dei contenuti ospitati sulla sua piattaforma, compresi i video contestati. A ciò aggiunge che con più di 6,2 miliardi di utenti di Internet (Internet-LiveStatistics, 2022; Statista, 2022), il monitoraggio e il controllo di tutti i contenuti caricati sul web è economicamente e praticamente impossibile. Google al riguardo richiama il considerando 22 del Regolamento DSA che chiarisce il concetto di “conoscenza o consapevolezza effettiva” a cui aggiunge le più recenti sentenze europee e nazionali che hanno riconosciuto lo status di hosting provider alle piattaforme di condivisione video tra cui YouTube. Pertanto, conclude Google, “tutte le corti nazionali che si sono pronunciate sul punto sono concordi nel ritenere che la responsabilità dei video memorizzati su YouTube è esclusivamente degli utenti che li hanno creati, mentre il provider (Google Ireland) non è responsabile di quei contenuti in quanto è pacifica in capo a Google Ireland la qualifica di hosting provider”. Inoltre, Google richiama la recente sentenza del TAR per il Lazio che lo scorso 28 ottobre 2021 ha annullato la decisione dell’AGCOM di condannare Google al pagamento di una multa di 100.000 euro per un analogo provvedimento per violazione del decreto dignità attraverso Google Ads, ovvero il servizio di pubblicità di Google affermando che “la strumentalità necessaria della piattaforma nella diffusione di contenuti non leciti non costituisce, di per sé, indice di responsabilità del gestore della stessa, dovendosi invece avere riguardo al carattere intenzionale dell’intervento, consistente nel fatto di intervenire con piena cognizione delle conseguenze del proprio comportamento”. Da ultimo, Google aggiunge la necessità di tenere conto dell’istanza cautelare di sospensione del provvedimento impugnato in occasione del quale il Collegio ha rilevato profili di fondatezza del ricorso pendente che “merita di essere confermato nella parte in cui, essendo stato qualificato in termini di ‘hosting provider’ il servizio fornito da Google, è stata esclusa la responsabilità del gestore della piattaforma internet per i contenuti illeciti che sulla stessa siano stati inseriti da terzi, ritenuto, in particolare, che nella fattispecie non appare rilevante, per affermare il ruolo attivo dell’hosting provider, la circostanza della conclusione di un contratto di partnership con l’utente, considerato che tale contratto attribuisce al creator la responsabilità legale dei contenuti immessi e che i controlli del gestore della piattaforma sembrano limitarsi al rispetto delle condizioni di adesione, con riferimento al numero di visualizzazioni et similia, senza estendersi alla verifica del contenuto dei video” (Ordinanza del TAR Lazio del 24 novembre 2022). Alla luce di tanto Google ritiene che: 1) in qualità di hosting provider esso non monitora – né è tenuto a monitorare – il contenuto dei video caricati su YouTube dai Creator; 2) sempre in virtù del suo ruolo di hosting provider, non può – e non deve, dato che tali poteri spettano solo alle autorità competenti, pubbliche, giudiziarie o amministrative – valutare e decidere se un contenuto è lecito o meno, a meno che non si tratti di casi in cui ciò risulti “manifesto” ossia risultare evidente al di là di ogni ragionevole dubbio, senza richiedere un esame giuridico; 3) pur non essendone obbligato, ha volontariamente adottato tutte le azioni necessarie per vietare la diffusione di messaggi pubblicitari sui giochi d’azzardo senza che tale condotta possa mutare il suo ruolo di hosting provider passivo. Su tale punto osserva in particolare che secondo il c.d. principio del buon samaritano “l’adozione volontaria di misure automatiche o manuali volte a contrastare la pubblicazione di video illeciti non implica un ruolo attivo dell’operatore, con conseguente impossibilità di porre in questione la qualifica di hosting provider e la necessaria applicazione del regime di (esenzione di) responsabilità”; 4) nemmeno la presenza di partner verificati, sostiene Google, può modificarne il ruolo e la responsabilità della piattaforma. In particolare, afferma Google in relazione ai partner verificati che “nel corso della procedura per l’iscrizione dell’utente al programma YPP (utile per diventare Partner Verificato), Google si limita soltanto a verificare il rispetto delle richiamate condizioni di adesione (più di 4.000 ore di visualizzazione pubbliche, più di 1.000 iscritti al proprio canale, assenza di avvertimenti per mancato rispetto delle Linee Guida, rispetta delle norme di Google sulla monetizzazione dei canali YouTube, esistenza di un account su Google Adsense). Questi controlli – sostanzialmente formali e numerici – possono a volte comportare l’eventuale visualizzazione a campione di alcuni video caricati dal Creator alla data della domanda al fine di accertare l’inesistenza di contenuti manifestamente illeciti. Tuttavia, tali contenuti – che possono essere modificati dal Creator ripetutamente, anche ogni minuto – non vengono analizzati puntualmente da Google e men che meno vengono controllati successivamente alla sottoscrizione del programma YPP. I contenuti caricati dall’utente possono essere sottoposti a controllo qualora Google riceva, in relazione ad uno specifico contenuto, una segnalazione da parte di un’autorità giudiziaria o amministrativa oppure da un terzo che lamenta la lesione di un suo diritto – il che, prima della Contestazione, non è mai avvenuto nel caso di specie”; 5) Infine, rileva Google, neppure i ricavi percepiti dalla piattaforma grazie agli abbonamenti ai canali contestati muterebbero la sua natura di hosting provider in quanto, come chiarito dalla Corte di Giustizia nella più volte citata decisione del 22 giugno 2021 “il semplice fatto che il gestore di una piattaforma di condivisione di video […] persegua un fine di lucro non consente né di constatare il carattere intenzionale del suo intervento nella comunicazione illecita di contenuti protetti, effettuata da taluni suoi utenti, né di presumere un carattere siffatto. Invero, il fatto di fornire servizi della società dell’informazione a scopo di lucro non significa affatto che il fornitore di siffatti servizi acconsenta a che questi ultimi siano utilizzati da terzi per violare il diritto d’autore”. Per tali ragioni, Google ritiene necessario che l’Autorità riconosca il suo ruolo di hosting provider e di conseguenza ne accerti l’assenza di responsabilità. 2.7. Sulla normativa applicabile alla pubblicità del gioco d’azzardo. Con riguardo alla portata del divieto introdotto dall’articolo 9 del Decreto Dignità, Google osserva che questo sanziona tutti i soggetti coinvolti nell’attività pubblicitaria, tra cui il committente, l’organizzatore dell’evento e il proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione, intendendosi per tali quei soggetti che partecipano all’attività pubblicitaria volutamente e in esecuzione del contratto pubblicitario. Con particolare riguardo al proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione (che è l’unica categoria potenzialmente impattante su YouTube), osserva la società, la stessa Autorità, nelle citate Linee Guida volte all’interpretazione della legge, ha chiarito che il proprietario del mezzo di diffusione è il “soggetto che ha la possibilità di incidere sul contenuto o la diffusione del messaggio pubblicitario” (escluso quindi chi si limita ad ospitare il contenuto stesso) mentre il proprietario del sito di diffusione è il “prestatore di servizi della società dell’informazione, diverso da quelli di cui agli articoli 14, 15 e 16 del decreto legislativo 70/2003” (cioè i cosiddetti caching, mere conduit e hosting provider) che non hanno alcun controllo sui contenuti né possibilità di monitorarli o impedirne il caricamento, e che possono intervenire sui contenuti solo su segnalazione dell’Autorità giudiziaria o amministrativa competente. Dall’ambito di applicazione del Decreto Dignità, osserva Google, vanno esclusi dunque gli hosting provider (ovvero quei soggetti che si limitano ad ospitare i contenuti di terzi), in quanto il Decreto Dignità mira a punire chi consapevolmente contribuisce alla promozione di un annuncio vietato, e non pretende di derogare allo speciale regime di (esonero di) responsabilità riservato agli hosting provider dalla normativa europea (Direttiva E-Commerce 2000/31/CE, recepita in Italia con il D.lgs. 70/2003, e DSA). Peraltro, continua Google, “sotto un ulteriore profilo, lo scopo delle prescrizioni del Decreto Dignità è quello di vietare qualsiasi forma di pubblicità diretta o indiretta resa in cambio di un corrispettivo o altre utilità: in altre parole, la legge richiede un accordo con l’inserzionista e il pagamento di un corrispettivo tra le parti coinvolte. Come meglio si dirà nel seguito, entrambi gli elementi mancano in questo caso. Ciò è perfettamente coerente con lo scopo della legge in questione che, come detto, si rivolge a quei soggetti che hanno un ruolo attivo nella creazione o diffusione del messaggio pubblicitario e che non intende certo prevedere una responsabilità oggettiva in capo a chi non possa in alcun modo controllare o modificarne il contenuto”. Ne discende quindi, a detta di Google, che il caso di specie non rientra nell’ambito di applicazione del Decreto Dignità in quanto non esiste un contratto pubblicitario per la promozione di gioco d’azzardo e dei giochi online né il pagamento di alcun corrispettivo; inoltre, Google è qualificabile quale hosting provider passivo in relazione a YouTube e, in quanto tale, non è responsabile dei video contestati e non è tenuta a verificare i relativi contenuti ed è espressamente esclusa dall’ambito di applicazione del divieto secondo le sopra menzionate Linee Guida. Ed ancora i video contestati non hanno natura pubblicitaria; nonché, in circostanze analoghe, e precisamente in casi di pubblicità “occulte” svolte dagli influencer sui social network, rileva la società che l’AGCM ha sempre concentrato le proprie indagini sugli influencer e sui marchi, senza mai coinvolgere le piattaforme. Tale modus operandi, ossia sanzionare qualsiasi piattaforma che ospiti contenuti generati dagli utenti, a detta di Google. costituisce una grave minaccia alla libertà di espressione. Infine, la società rileva di non appartenere ad alcuna delle categorie di soggetti sanzionati dal Decreto Dignità. 2.8. Sull’invalidità della Contestazione per la natura generica delle doglianze Con riguardo all’atto di contestazione, Google ne ravvisa l’invalidità a causa della natura generica delle doglianze. Al riguardo, precisa che l’aver impedito agli utenti italiani di accedere ai video contestati e ai relativi canali è un atto cautelativo che in alcun modo riconosce la fondatezza dei rilievi di AGCOM; di contro, Google nel caso di specie ha eccepito la carenza di specificità e di analiticità della contestazione, che si limita a fornire una serie di URL di video e di canali che li ospiterebbero senza prendere in alcun modo posizione sulla motivazione per cui considera quei singoli contenuti come illeciti. In particolare, l’Autorità stessa, osserva Google, ha adottato delle formulazioni che riconoscono la circostanza che solo alcuni dei contenuti di cui si discute sarebbero affetti dai vizi ivi elencati. Secondo la Parte, l’omessa motivazione relativa alla pretesa illiceità di ognuno dei video contestati e le generiche formulazioni sopra elencate integrano una violazione dell’obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo di cui all’articolo 3 della legge del 7 agosto del 1990, n. 241, che a sua volta si traduce nella lesione dei diritti di partecipazione al procedimento e difesa della Società, essendole preclusa la possibilità di comprendere cosa specificamente secondo l’Autorità dovrebbe essere eliminato/rettificato in ciascuno dei video contestati per non incorrere nel rischio di sanzioni. Inoltre, si osserva che con specifico riferimento a Google in quanto hosting provider, l’assenza di analisi video per video integra un caso di scuola di notifica invalida in quanto contraria ai requisiti elaborati dalla giurisprudenza europea e italiana in merito agli elementi necessari per mettere il provider ad effettiva conoscenza della natura illecita delle singole informazioni create dagli utenti e ospitate sui suoi server. In questa prospettiva, asserisce Google, la contestazione non soddisfa nemmeno i requisiti dettati dall’articolo 9 del DSA, che assurgono a principi generali immediatamente applicabili al caso di specie, in base al quale “l’ordine di contrastare uno o più specifici contenuti illegali, emesso dalle autorità giudiziarie o amministrative nazionali competenti” deve necessariamente contenere la motivazione per cui le informazioni costituiscono contenuti illegali, mediante un riferimento a una o più disposizioni specifiche del diritto dell’Unione o del diritto nazionale conforme al diritto dell’Unione”. Un’interpretazione di quel requisito alla luce della giurisprudenza europea e italiana di cui si è dato sopra conto, inclusa la decisione Google contro Peterson, porterebbe all’ovvia conclusione che la “motivazione” in discorso deve essere riferita a ognuna delle “informazioni concrete” di cui si tratta –nella specie, a ognuno dei video contestati di cui l’Autorità chiede l’inibizione all’accesso. Google conclude quindi affermando che “l’assenza di una simile motivazione contenuto per contenuto impedisce (e ha impedito) a Google di verificare quali sarebbero gli addebiti specifici eccepiti dall’autorità rispetto ai contenuti in questione, e, di conseguenza, di formulare compiutamente le proprie difese a riguardo (cfr. pagg. 6-7 della Contestazione), compromettendo il diritto di difesa della Società”. 2.9. Sull’inapplicabilità del Decreto Dignità Con specifico riferimento all’ambito di applicazione della normativa in parola, Google sostiene di non rientrare tra i soggetti coinvolti nell’attività pubblicitaria e, quindi, nel campo di applicazione del Decreto Dignità. In particolare, a dire di Google, tale previsione sanziona tutti i soggetti coinvolti nell’attività pubblicitaria, tra cui il proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione, intendendosi, però, per tali quei soggetti che partecipano attivamente all’attività pubblicitaria volutamente e in esecuzione del contratto pubblicitario, così come chiarito dalle Linee Guida dell’Autorità. In altre parole, sostiene Google, il Decreto Dignità mira sostanzialmente a punire questi soggetti che hanno una responsabilità editoriale sui contenuti ospitati – i.e. “un controllo effettivo sia sulla selezione dei [contenuti] sia sulla loro organizzazione in un palinsesto cronologico, nel caso delle radiodiffusioni televisive, o in un catalogo, nel caso dei servizi di media audiovisivi a richiesta” (articolo 1, co. 1, lett. c) della Direttiva 2010/13/UE) – come, ad esempio, radio, televisione, stampa (non a caso l’articolo 3, co. 1, lett. s) delle Linee Guida si riferisce espressamente ai fornitori di servizi media audiovisivi). Per contro, la Società osserva di limitarsi soltanto a mettere a disposizione uno spazio virtuale su cui gli utenti possono caricare video in maniera del tutto autonoma e sotto la loro esclusiva responsabilità, senza incidere sul loro contenuto e senza monitorarli. Ciò premesso, evidenzia Google, nel caso di specie non esiste un contratto pubblicitario poiché YouTube non è un servizio pubblicitario ma una semplice piattaforma di condivisione di video da cui la società non percepisce alcun compenso né vantaggio dalla diffusione dei contenuti pubblicati su YouTube, ma solo dagli annunci che gli inserzionisti – soggetti completamente estranei ai titolari dei canali o agli autori dei video in questione – pubblicano su un video idoneo. Ribadisce infatti che gli annunci pubblicati sui canali contestati non hanno nulla a che vedere con l’oggetto dei video e non riguardano attività di giochi o scommesse; dunque, solo gli annunci degli inserzionisti rappresentano la pubblicità di cui Google può essere a conoscenza. 2.10. Sulla censura e libertà di espressione Google osserva che perseverare nell’intento illecito di sanzionare i fornitori di piattaforme rispetto a contenuti generati dagli utenti di cui non sono a conoscenza non porterebbe ad alcun risultato utile in termini di contrasto ai contenuti promozionali del gioco d’azzardo, non potendo (né dovendo) Google monitorare i contenuti degli innumerevoli video caricati dagli utenti sulla sua piattaforma. Per contro, ritiene che l’unico risultato che una simile conclusione comporterebbe sia creare i presupposti per una forma di censura preventiva ed arbitraria di contenuti potenzialmente leciti, sopprimendo la libertà di espressione degli utenti e vanificando il senso stesso dell’uso di queste piattaforme. Google sostiene di comprendere su quai basi dovrebbe basare la propria valutazione, al fine di stabilire se un contenuto generato dall’utente debba essere considerato di natura promozionale, considerando che, come detto, essa è completamente estranea a qualsiasi rapporto eventualmente intercorrente tra l’autore del contenuto e una terza parte, per la promozione di uno specifico contenuto. Una tale azione, oltre ad essere tecnicamente impossibile, comporterebbe, a suo dire un regime di responsabilità oggettiva per gli hosting provider, il che costituirebbe una grave minaccia alla libertà di espressione e di scambio di informazioni, diritti fondamentali sanciti dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalla Costituzione italiana. Prevedere un obbligo di monitoraggio farebbe pendere drasticamente l’equilibrio delle regole di responsabilità degli intermediari verso una maggiore restrizione della libertà di parola, potrebbe ostacolare la concorrenza e l’innovazione aumentando i costi di gestione di una piattaforma online (favorendo quindi l’uscita dal mercato delle piattaforme più piccole), e potrebbe esacerbare il problema dell’eccessiva rimozione di contenuti legittimi da internet. Infatti, se la piattaforma dovesse cercare attivamente i contenuti illeciti tra i miliardi di informazioni generate dagli utenti e toglierli, ciò si tradurrebbe in una censura preventiva che altererebbe il ruolo degli internet service provider o, peggio ancora, in una “responsabilità oggettiva” per tutti i contenuti ospitati che, però, il provider non ha creato, né di cui ha effettiva conoscenza. Ciò sarebbe anche in netto contrasto con i principi che regolano la responsabilità extracontrattuale nell’ordinamento italiano, oltre a compromettere i principi costituzionali di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, nonché di libertà di espressione. In base a tanto, Google non può essere ritenuto responsabile di eventuali violazioni commesse dai suoi utenti, in quanto non svolge alcun ruolo nella creazione dei contenuti caricati, né si può presumere che controlli attivamente la conformità della loro attività. La Parte ritiene infatti di essere tenuta a rimuovere i contenuti ospitati sulla sua piattaforma solo se ha conoscenza effettiva dell’illiceità del contenuto, avendo ricevuto un ordine in tal senso da parte di un tribunale o di un’autorità amministrativa competente. 2.11. Sulla qualifica di Google quale destinatario della sanzione alla luce delle norme applicabili. In aggiunta a quanto sopra, Google sostiene di non poter essere ritenuto responsabile delle contestazioni perché non rientra tra i destinatari delle sanzioni previste dalle previsioni del Decreto Dignità. In particolare, alla luce delle linee guida dell’Autorità è stato chiarito che per “gestore del sito internet” e per “il prestatore di servizi” della società dell’informazione, si deve intendere soggetti diversi da quelli di cui agli articoli 14, 15 e 16 del Decreto ossia mere conduit, caching provider e hosting provider. Dunque, gli Internet Service Provider che rientrano nelle definizioni di cui agli articoli 14, 15 e 16 del Decreto Legislativo 70/2003 non possono essere soggetti alle sanzioni stabilite dalle norme del Decreto stesso. Ciò premesso, Google essendo un hosting provider non può essere considerato né come “proprietario del sito web di diffusione o di destinazione” (punto 3 lett. t delle Linee Guida) che in questo caso sarebbero i proprietari dei canali contestati, né come “proprietario del mezzo di diffusione o di destinazione” che è definito come il “soggetto che ha la possibilità di incidere sul contenuto o la diffusione del messaggio pubblicitario” (punto 3 lettera s delle Linee Guida). 2.12. Sulla determinazione dell’importo della sanzione amministrativa. Con particolare riferimento all’asserita assenza di qualsiasi responsabilità o violazione da parte di Google, la società afferma che la sanzione dovrebbe corrispondere all’importo minimo previsto dalla legge. Al riguardo ribadisce che la stessa non ha ricevuto assolutamente alcun pagamento né dai presunti inserzionisti né dagli autori dei contenuti per alcun tipo di sponsorizzazione o contenuto pubblicitario e promozionale legato all’attività di giochi o scommesse e non vi è stato alcun contratto tra Google e gli operatori/pubblicitari di servizi di gioco o scommesse o i proprietari dei canali contestati per quanto riguarda i video allo scopo di promuovere attività di giochi o scommesse in cambio di un corrispettivo. I ricavi di Google, come già rilevato, derivano solo dagli annunci – estranei al contenuto dei video contestati – che gli inserzionisti di qualsiasi tipo (quindi, diversi e non collegati ai servizi di gioco d’azzardo presumibilmente sponsorizzati dai proprietari dei Canali Contestati) associano ai video menzionati. In ragione di quanto rilevato, poiché, sostiene Google, l’articolo 9 comma 2 del Decreto Dignità commisura la sanzione ad un importo pari al 20% del valore della pubblicità realizzata in violazione della legge, e non alla pubblicità in generale, è chiaro che non vi siano nel caso di specie ricavi generati da tali pubblicità. Ne discende quindi che la sanzione dovrebbe essere pari a zero o comunque pari al minimo edittale di Euro 50.000,00, considerata la novità normativa e la peculiarità del caso di specie, trattandosi di comuni video pubblicati su YouTube e non di inserzioni pubblicitarie e proponendosi, nell’ordinanza, una interpretazione del concetto di “pubblicità” di cui al Decreto Dignità estremamente ampia e incerta, che va ben oltre il tenore letterale dello stesso Decreto Dignità. A ciò aggiunge che, in ogni caso, l’importo della sanzione non può essere determinato sulla base di ogni singolo video, ma come un’unica condotta ai sensi del regolamento AGCOM sulle sanzioni secondo cui: “per la qualificazione dell’azione come “unica”, è ininfluente che essa possa essersi tradotta in una pluralità di atti, in quanto ciò che rileva è che questi siano preordinati ad un unico obiettivo o effetto…”. Pertanto, conclude rilevando che l’importo della sanzione non può essere in ogni caso superiore a 50.000,00 euro. Infine, osserva che l’Autorità, nel determinare l’ammontare della sanzione, dovrebbe considerare che i video contestati sono stati immediatamente rimossi da Google al ricevimento della comunicazione da parte dell’Autorità, il che esclude la possibilità di applicare a Google una sanzione maggiorata come quelle che l’Autorità ha applicato in precedenti casi analoghi.

Sul valore economico della pubblicità

Con specifico riferimento al valore economico della pubblicità, con nota trasmessa in data 13 giugno 2023 (prot. n. 157676), successivamente integrata in data 15 settembre 2023 (prot. n. 233682), l’Autorità – tenuto conto di quanto previsto dall’articolo 9, comma 2, del Decreto dignità a norma del quale la violazione del divieto di pubblicità di giochi con vincite in denaro è punita nei confronti del committente, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell’organizzatore della manifestazione, evento o attività, con l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria “di importo pari al 20 per cento del valore della sponsorizzazione o della pubblicità” – ha richiesto ogni più utile informazione funzionale alla determinazione del “valore della sponsorizzazione o della pubblicità” avuto riguardo alla fattispecie oggetto di contestazione, ed in particolare ogni tipo di ricavo da pubblicità diretta o indiretta (ivi inclusi i ricavi da abbonamento al canale, pubblicità di annunci in stream, video discovery, annunci outstream e annunci bumper) afferenti a ciascuno dei sopra richiamati 48 canali YouTube. Al riguardo, Google, con nota pervenuta in data 29 giugno 2023 (prot. n. 173858) successivamente integrata in data 6 ottobre 2023 (prot. n. 253967), ha trasmesso le risposte alle varie richieste di informazioni formulate dalla autorità con nota n. 157676 del 13 giugno 2023, successivamente integrata con nota n. 233682 del 15 settembre 2023. In particolare, Google preliminarmente ha affermato che “non vi è alcun contratto di sponsorizzazione o di pubblicità intercorrente tra Google Ireland Limited e i creator titolari dei Canali Contestati”. Nello specifico, la società ha chiarito che, oltre all’accettazione dei termini di servizio di YouTube, l’unico contratto in essere tra Google Ireland e i creator è il YPP. In particolare, i termini di servizio di YouTube, che ogni utente partner è tenuto ad accettare, non introducono alcun obbligo di controllo di Google Ireland; al contrario chiariscono che l’utente assume in via esclusiva ogni responsabilità in relazione ai contenuti caricati e ne garantisce la liceità. Sul punto, Google ha ribadito che solo 27 dei 47 canali contestati erano partner verificati aderenti al programma YPP. Con specifico riferimento ai 20 canali che non sono partner verificati, ma dei semplici canali che diffondono contenuti comunque in violazione dell’articolo 9 del Decreto Dignità, si riporta nella tabella di seguito il relativo nome, URL e i relativi ricavi economici comunque ottenuti dalla piattaforma YouTube.

Per quanto concerne i restanti 27 canali, Google ha rilevato che questi soggetti oltre all’accettazione dei Termini di Servizio di YouTube hanno sottoscritto il cd YouTube Partner Program (YPP). Google ha altresì aggiunto che un creator può essere idoneo a guadagnare sulla piattaforma YouTube attraverso il proprio canale esclusivamente al raggiungimento di specifici requisiti (avere più di 1.000 iscritti e più di 4.000 ore di visualizzazioni in 12 mesi). Una volta soddisfatti i suddetti requisiti, osserva Google, per poter effettivamente monetizzare è necessario che il canale faccia parte del c.d. (“YPP”) che offre ai creator la possibilità di accedere a più risorse e funzionalità di monetizzazione di YouTube e attingere a molteplici flussi di entrate, quali: a) entrate pubblicitarie, intese come la possibilità, per il creator, di partecipare alla condivisione delle entrate provenienti dagli annunci che gli inserzionisti pubblicano sui video idonei agli annunci; b) entrate da YouTube Premium, generate qualora uno spettatore abbonato a YouTube Premium guardi i contenuti di quel canale; c) finanziamenti dei fan che aiutano il creator a guadagnare tramite abbonamenti al canale che gli spettatori effettuano versando dei pagamenti mensili e usufruendo in cambio di vantaggi esclusivi, come badge, emoji e altri elementi (c.d. “membership”), nonché tramite funzionalità che agevolano l’interazione tra fan e creator durante i live streaming e le première, quali Superchat, Super Sticker e Super Grazie. Google ha quindi prodotto i dati relativi ai ricavi attribuiti a Google Ireland provenienti dalla monetizzazione di ciascun canale oggetto di contestazione:

Risultanze istruttorie e valutazioni dell’Autorità

Con riferimento alle argomentazioni svolte dalla Società relative all’asserita liceità delle condotte oggetto di contestazione, appare opportuno procedere, in via preliminare, ad una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento allo scopo di chiarire quali siano le condotte che il legislatore considera illecite. L’articolo 9 del sopra citato Decreto dignità prescrive che “al fine di un più efficace contrasto del disturbo da gioco d’azzardo è vietata qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e i canali informatici, digitali e telematici, compresi i social media […]”. Il comma 2 del richiamato articolo, al fine di rafforzare la portata dissuasiva della sanzione che assiste il divieto sancito al primo comma, ha previsto che siano responsabili dell’illecito: (1) “committente”, (2.1) “proprietario del mezzo o del sito di diffusione”, (2.2) “proprietario del mezzo o del sito di destinazione” e (3) “organizzatore della manifestazione, evento o attività”. Invero, la ratio del divieto, che giustifica l’ampiezza del perimetro soggettivo e oggettivo di applicazione, risiede nell’esigenza di contrastare il fenomeno della ludopatia, (qualificato oggi come “disturbo da gioco d’azzardo”, c.d. DGA, ai sensi dell’articolo 9, comma 1-bis del Decreto dignità) e di rafforzare la tutela del consumatore/giocatore, con particolare riferimento alle categorie vulnerabili (giocatori patologici, minori, anziani, etc.). Ai fini dell’irrogazione della sanzione trova applicazione la legge n. 689/81, espressamente richiamata dalla norma. Come chiarito, l’articolo 9 del Decreto dignità punisce il committente, il proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e l’organizzatore della manifestazione, evento o attività responsabili della propria azione od omissione “cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”. Come confermato da costante giurisprudenza, non rileva che il proprietario del mezzo o del sito sia o possa essere “consapevole” dell’illiceità del messaggio pubblicitario con la conseguenza che, ai fini della relativa imputazione, la colpa si presume. Nel caso di specie, il legislatore ha infatti ritenuto di porre in capo a tutti i soggetti obbligati il divieto di realizzare “qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo” al fine di assicurare un contrasto serio ed effettivo nei confronti dei pericoli connessi alla pubblicità (tanto più se propagata con un mezzo così pervasivo come il mezzo internet) dei giochi a pagamento con vincite in denaro. Il divieto ha, dunque, una portata così ampia che in capo ai soggetti obbligati non residuano margini di discrezionalità sulla possibile liceità di contenuti afferenti a giochi con vincite in denaro. L’Autorità, con la richiamata delibera n. 132/19/CONS, ha adottato le Linee guida con l’obiettivo di coordinare le nuove previsioni del Decreto dignità con l’articolata disciplina di settore previgente, non incisa dall’intervento legislativo, e con i principi costituzionali e dell’Unione europea. Segnatamente, le Linee guida si prefiggevano di fornire chiarimenti interpretativi rispetto all’applicazione dell’articolo 9, ma limitatamente ai servizi media tradizionali. Come chiarito dal TAR del Lazio nella sentenza n. 11036/2021 le Linee guida non trovano applicazione rispetto al settore dell’online e, più in generale, rispetto agli operatori del settore in parola non stabiliti in Italia in quanto si configurerebbe, altrimenti, “una inammissibile limitazione, ad opera di un atto amministrativo, dell’efficacia di una norma di legge”. La limitazione territoriale, infatti, trova applicazione solo rispetto agli operatori media autorizzati, sottoposti alla vigilanza dell’autorità di competenza del Paese d’origine. 3.1. Sui canali contestati Con riguardo al rilievo mosso da Google circa la circostanza che taluni dei canali contestati non siano interamente dedicati al gioco d’azzardo, l’Autorità ritiene di aver individuato con sufficiente motivazione le violazioni dell’articolo 9 del Decreto Dignità per ogni canale oggetto della Contestazione. Si è evidenzia che, per ciascun video oggetto di accertamento, l’Autorità in fase preistruttoria ha effettuato un’analisi puntuale del contenuto, valutando quindi, nell’esercizio del proprio potere discrezionale, se ricorressero gli estremi per rilevarne i profili di violazione. Sul punto, occorre evidenziare come la circostanza che un canale ospiti contenuti di vario genere non è perciò sola sufficiente per escludere la violazione di legge; viceversa, è stato ben possibile accertare la violazione anche in caso di canali a contenuto “differenziato”. Nel caso di specie, l’Autorità, a valle delle diverse e numerose segnalazioni ricevute, ha condotto un’analisi concreta valutando il contenuto e la quantità di video dei canali, al fine di accertare se, in virtù di tali elementi, la condotta potesse essere considerata come attività di pubblicità al gioco d’azzardo. Inoltre, la circostanza che l’Autorità non abbia incluso tutti i canali e/o video segnalati dagli utenti nella Contestazione è una ragionevole conseguenza proprio della suddetta analisi e verifica in concreto condotta dall’Agcom. L’analisi effettuata dall’Autorità in sede preistruttoria si è infatti concentrata principalmente nel valutare ed individuare principalmente “i canali tematici” ossia i canali YouTube dove la “linea editoriale” fosse incentrata principalmente nella diffusione di video relativi alla promozione di giochi con vincite in denaro. Peraltro, al momento delle verifiche effettuate dall’Autorità, è comunque emerso che i 48 (rectius 47) canali contenessero interamente video in violazione. Per quanto poi riguarda il fatto rilevato da Google che diversi canali individuati nell’atto di contestazione non sono “partner verificati” si osserva che tale circostanza è meritevole di essere presa in considerazione. In particolare, si ritiene che i (20) canali non verificati e, dunque, non soggetti ad alcun controllo tecnico ed umano in un arco temporale ben definitivo, sia una circostanza tale da consentire di accertare la non responsabilità da parte della piattaforma di condivisione di video YouTube circa i contenuti illeciti ivi diffusi da parte di diversi content creator. Al riguardo, si osserva che ai sensi dell’articolo 15 della Direttiva e-commerce, oggi sostituito dall’articolo 8 del DSA non è possibile imporre alcun obbligo generale di sorveglianza nei confronti dei prestatori di servizi intermediari relativamente alle informazioni che questi trasmettono o memorizzano, né di accertare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illegali. Parimenti, non è possibile affermare, ai sensi dell’articolo 14 della Direttiva e-commerce, oggi sostituito dall’articolo 6 del DSA, che nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, Google sia responsabile delle informazioni memorizzate su richiesta dei 20 content creator che hanno diffuso – sebbene in grande quantità e prevalentemente con una tematicità del proprio canale – contenuti in violazione dell’articolo 9 del Decreto Dignità. Sebbene l’illeceità dei contenuti diffusi fosse evidente dalla mera visione di qualsiasi video caricato su uno dei 20 canali sopra identificati presso YouTube, tale circostanza non è comunque sufficiente a dimostrare che Google fosse “effettivamente a conoscenza delle attività o dei contenuti illegali” (ex art. 6, comma 1, lett. a) del DSA). Tale situazione appare profondamente diversa rispetto alla fattispecie sanzionata con la delibera n. 275/22/CONS e relativa a contenuti diffusi su canali già analizzati e verificati anche tramite risorse umane in un arco di tempo non inferiore a 30 giorni da parte di Google. Infatti, in quest’ultimo caso la società ha avuto piena contezza circa l’illeceità dei relativi canali verificati in funzione dei video ivi presenti grazie all’attenta e prolungata attività di analisi preliminare effettuata da Google con risorse anche umane a valle di specifica e puntuale istanza formulata dal content creator “abilitato” automaticamente a tale scopo dalla stessa piattaforma al raggiungimento di determinate soglie predefinite (4000 ore di visualizzazione e 1000 iscritti al canale). Con specifico riferimento, invece, ai 20 canali sopra identificati la piattaforma non ha avuto modo di analizzare ex ante la linea editoriale del canale e i relativi contenuti. Tutto ciò posto, con specifico riferimento ai predetti 20 canali sopra identificati, non avendo la società alcuna conoscenza circa l’illecito de quo ed avendo la stessa prontamente disabilitato i relativi contenuti, la stessa non può essere considerata in alcun modo colpevole per detta condotta illecita. Con specifico riferimento, poi, al canale DCB Team, si ritiene accoglibile quanto evidenziato in relazione al fatto che detto canale era presente due volte all’interno dell’elenco di tutti i canali contestati. Al riguardo, si precisa che a differenza di quanto dichiarato dalla società, dalle ulteriori verifiche effettuate è merso che i due canali hanno il medesimo URL. Ne discende, quindi, che di tali due canali, l’Autorità terrà conto solo una volta. Con riguardo, invece, ai restanti (27) canali si ribadisce che la società non può avvalersi della condizione generale di esenzione di responsabilità di cui all’articolo 6 del DSA avendo la stessa avuto effettiva conoscenza dell’illecito in ragione delle procedure di verifica da questa effettuate a fronte dell’espressa richiesta da parte di un content creator. In particolare, ai sensi dell’articolo 6 del DSA «nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore del servizio non è responsabile delle informazioni memorizzate su richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza delle attività o dei contenuti illegali e, per quanto attiene a domande risarcitorie, non sia consapevole di fatti o circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dei contenuti; oppure b) non appena venga a conoscenza di tali attività o contenuti illegali o divenga consapevole di tali fatti o circostanze, agisca immediatamente per rimuovere i contenuti illegali o per disabilitare l’accesso agli stessi» (enfasi aggiunta). Pertanto, ai fini della configurabilità della responsabilità in capo alla piattaforma per l’illecito ipotizzato, diventa dirimente individuare il momento in cui possa ritenersi dimostrabile con certezza che la medesima sia venuta “effettivamente a conoscenza” della condotta illecita. Infatti, ove l’effettiva conoscenza della piattaforma sia dimostrabile solo a seguito della notifica dell’atto di contestazione dell’Autorità, l’Internet Service Provider (ISP) ben potrebbe far valere il regime di esenzione di responsabilità di cui al richiamato articolo 6 del DSA, non gravando sullo stesso alcun obbligo di sorveglianza preventivo su quanto caricato dagli utenti (cfr. articolo 8 del DSA). Viceversa, ove sia possibile dimostrare la conoscenza effettiva della condotta illecita in un momento antecedente alla notifica dell’atto di contestazione, l’ISP non potrà avvalersi del predetto regime di esenzione. Tanto premesso, si osserva che di regola tra l’utente comune, che crea contenuti (c.d. “content creator”) e li carica sulla piattaforma, e quest’ultima intercorre sempre un rapporto negoziale mediante la stipula di un “contratto per adesione”, in quanto è sufficiente l’accettazione delle clausole unilateralmente predisposte dal fornitore del servizio intermediario da parte del content creator, affinché il rapporto sinallagmatico si perfezioni. Si vedano, ad esempio, i “Termini di Servizio” di YouTube (cfr. URL https://www.youtube.com/t/terms#18bdedb44d) ove si legge che «Se possiedi un canale YouTube, puoi caricare Contenuti sul Servizio. Puoi utilizzare i Contenuti per promuovere la tua attività commerciale o artistica. Se scegli di caricare Contenuti, non hai l’autorizzazione a pubblicare sul Servizio Contenuti che non rispettano il presente Contratto o la legge. […] La responsabilità legale dei Contenuti che pubblichi sul Servizio ricade su di te. Potremmo utilizzare sistemi automatizzati per analizzare i Contenuti e rilevare violazioni e comportamenti illeciti, come spam, malware e contenuti illegali.». Ebbene, poiché da tale negozio non deriva un impegno da parte della piattaforma a verificare preventivamente i contenuti da caricare, qualora uno di questi violasse il Decreto Dignità si dovrà ritenere che l’effettiva conoscenza della illiceità del contenuto caricato da parte della piattaforma ospitante derivi (o comunque sia dimostrabile), di fatto, solo dall’atto di contestazione dell’Autorità che qualifica il contenuto specifico come illecito. Tuttavia, si osserva come ai content creator che raggiungono una certa soglia di ore di contenuti caricati, di visualizzazioni e di iscritti al canale viene data la possibilità di richiedere di sottoscrivere un contratto ulteriore per divenire “partner commerciale” fornitore di servizio intermediario. Trattasi, da un punto di vista civilistico, di un “invito a proporre” cui non consegue l’automatica instaurazione del rapporto contrattuale. Infatti, il content creator predispone e invia al fornitore del servizio intermediario una proposta di sottoscrizione del contratto di “partnership commerciale”, al fine di ottenere maggiori ricavi, nella quale dichiara il “tema” del proprio canale o canali. Come già evidenziato, nel caso de quo, i 27 canali in oggetto hanno presentato formale istanza di diventare partner commerciali di Google. Tale istanza è stata resa possibile “automaticamente” da Google direttamente tramite il proprio canale YouTube al raggiungimento di determinate soglie stabilite ex ante dalla piattaforma (4000 ore di visualizzazioni e 1000 iscritti al canale). La società una volta ricevuta detta proposta da parte dei vari content creator di stipulare un contratto di partnership commerciale ha avviato le proprie attività di verifica (contenuti caricati, visualizzazioni e numero di iscritti ai canali) afferenti alla natura del canale e ai relativi video ivi presenti sia con risorse automatiche che, soprattutto, con risorse umane in un arco temporale dichiarato dalla stessa società non inferiore a 30 giorni per ciascuna istanza. Occorre notare al riguardo che in alcuni casi, le richiamate attività di verifica possono riguardare anche la tematicità del canale, attività che in concreto viene necessariamente svolta da personale umano. Ad esempio, nella pagina web “Norme sulla monetizzazione dei canali YouTube” (cfr. URL https://support.google.com/youtube/answer/1311392?hl=it) viene espressamente indicato che tra le verifiche condotte da Google in seguito alla ricezione della proposta di sottoscrizione del contratto di “partnership commerciale” avanzata dal content creator vi è anche (e soprattutto) quella sul “Tema principale” del canale. Solo a valle di un positivo ed attivo riscontro da parte di Google circa il rispetto delle condizioni generali del proprio contratto e, parimenti, l’assenza di ogni illecito ivi presente, la società ha consentito ai relativi 27 content creator di sottoscrivere uno specifico contratto di natura economica a prestazioni corrispettive, assumendo la veste di “Partner verificati”, aderenti al programma YPP (YouTube Partner Program), con conseguente possibilità di monetizzare i contenuti ivi presenti, nonché di accedere a team di assistenza dedicati. In particolare, si osserva che una volta divenuto partner di Google, un content creator può accrescere la sua fonte di remunerazione non solo attraverso una revenue sharing del valore economico delle pubblicità diffuse da YouTube in fase di pre-roll e in-roll in funzione delle visualizzazioni ottenute, ma anche attraverso donazioni e abbonamenti da parte degli utenti finali. Dunque, l’utente finale può interagire solo con i partner verificati, ossia una percentuale molto piccola, pari a circa 3 milioni a livello mondiale rispetto a tutti gli altri canali presenti sulla piattaforma pari a oltre 31 milioni di canali (ossia oltre il 90% del totale). Ebbene, nell’ambito di tale ulteriore segmento negoziale, qualora il fornitore del servizio intermediario, ai fini della sottoscrizione dell’ulteriore contratto di “partner commerciale”, valuti la “tematicità del canale”, emerge, con specifico riferimento ai 27 canali sopra richiamati, chiaramente la piena consapevolezza dell’illiceità dei contenuti veicolati tramite i corrispondenti canali già in tale fase. Valga la pena osservare e sottolineare come Google dimostri in concreto di essere consapevole del divieto di pubblicità di giochi online a pagamento con vincite in denaro atteso che nelle “Norme su prodotti e servizi regolamentati o illegali” (cfr. URL https://support.google.com/youtube/answer/9229611?hl=it) si legge espressamente che il content creator è tenuto a “Non pubblicare su YouTube contenuti che hanno lo scopo di vendere direttamente i prodotti e servizi regolamentati elencati di seguito, né contenuti che rimandano tramite link o facilitano l’accesso a tali prodotti e servizi.”. Tra i prodotti elencati vi sono anche i “Siti di giochi e scommesse online non ancora sottoposti a revisione da parte di Google o YouTube”. Ancora, nella pagina collegata (cfr. url https://support.google.com/youtube/answer/9910779?sjid=133526819908347301 48- EU) si legge “Consentiamo i link a siti di giochi e scommesse online solo se sono stati verificati per garantire che rispettino i requisiti legali locali. Se vuoi aggiungere un link a un sito di giochi e scommesse online, devi assicurarti che il dominio sia certificato da Google Ads o rivisto da YouTube”. Da tale quadro di fatto sembra emergere che: a) Google sia pienamente consapevole dell’esistenza di un divieto (nazionale) di pubblicità di giochi online a pagamento con vincite di denaro; b) Google al momento della sottoscrizione del contratto di partnership commerciale sia effettivamente a conoscenza che il tema dei canali proposti dal content creator si pone in contrasto con il divieto medesimo. Come già evidenziato nella delibera n. 275/22/CONS e nelle relative difese in giudizio, ai fini della instaurazione di questo rapporto di partnership commerciale il controllo svolto è umano e si colloca a monte della trasmissione dell’intero canale quale partner commerciale, così differenziandosi dal controllo, esclusivamente tecnico, svolto invece a valle sui singoli contenuti caricati. Tanto è vero che per valutare la proposta del content creator di adesione al programma di “partner commerciale”, Google richiede non meno di trenta giorni, che possono essere prorogati in caso di opinioni contrastanti tra i revisori umani, e non necessariamente portano alla conclusione del contratto (riprova ne sia che viene anche indicato il richiamato termine minimo di 30 giorni per riproporre la sottoscrizione del contratto di partnership). Ebbene, ove il fornitore del servizio accetti la proposta di sottoscrivere un contratto di partnership commerciale per un canale avente come tema unico dei contenuti quello della promozione di giochi online a pagamento con vincite in denaro, in forza del predetto controllo umano svolto a monte della sottoscrizione del secondo contratto, il fornitore medesimo potrà, a partire da quel momento, essere considerato “effettivamente a conoscenza” dell’illiceità dei contenuti veicolati dal content creator. In tal caso, dunque, il momento dell’effettiva conoscenza da parte dello stesso fornitore può essere individuato in un momento antecedente a quello della notifica dell’atto di contestazione e, pertanto, ben potrà essere sanzionato per la violazione del Decreto Dignità. Infine, considerata la connotazione tipicamente nazionale del divieto in esame – che si mira al rafforzamento della tutela del consumatore e segnatamente all’efficace contrasto del disturbo da gioco d’azzardo – e vista la natura di video sharing platform del fornitore che viene in rilievo nel presente procedimento, fermo il potere di adottare ordini di notice & take down e notice & stay down, si ritiene che, in ossequio al principio di proporzionalità e di responsabilità in tema di sanzioni amministrative, la sanzione per la violazione del Decreto Dignità debba essere irrogata esclusivamente per canali univocamente destinati al pubblico italiano, in ossequio al dettato dell’art. 41, commi 7, 8 e 13, del d.lgs. n. 208/20211 e alle relative norme attuative di cui al “Regolamento recante attuazione dell’art. 41, comma 9, del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 208, in materia di programmi, video generati dagli utenti ovvero comunicazioni commerciali audiovisive diretti al pubblico italiano e veicolati da una piattaforma il cui fornitore è stabilito in un altro Stato membro” (delibera n. 298/23/CONS del 22 novembre 2023). Ne consegue che dei sopra identificati 27 canali la società debba rispondere esclusivamente dei canali in cui video caricati siano specificatamente rivolti al pubblico italiano. Ciò posto, trattandosi di una norma italiana che ha una valenza limitata ad un pubblico italiano, si ritiene che la violazione commessa da Google sia ascrivibile solo ai 15 canali verificati dalla stessa società e rivolti principalmente al pubblico italiano. 3.2. Sul ricorso attualmente pendente dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio In merito al ricorso presentato avverso la delibera n. 275/22/CONS si osserva che allo stato non si è ancora formato alcun giudicato in quanto è pendente il giudizio d’appello presso il Consiglio di Stato avverso la sentenza del Tar Lazio n. 13676 dell’8 settembre 2023; 3.3. Sulla responsabilità della società Google per i video contestati e sulla presunta assenza di un contratto pubblicitario. Circa la presunta assenza di responsabilità di Google in ragione del fatto che i video de quibus non sono annunci pubblicitari creati e qualificati come tali dagli utenti, ma normali video caricati sulla piattaforma dai creator stessi si osserva che la definizione di pubblicità di cui all’articolo 9 del Decreto Dignità ha un’accezione ben più ampia di quanto sostenuto dalla Società nella propria memoria. La richiamata previsione, infatti, ha introdotto un divieto generale ed assoluto di ogni forma di pubblicità “relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché’ al gioco d’azzardo”, “diretta” ed “indiretta”, “comunque effettuata” e “su qualunque mezzo”, “compresi i social media”. Non corrisponde al vero, poi, quanto affermato dalla società circa il fatto di non avere contezza dell’illiceità dei contenuti de quibus. Ed infatti, come sopra ampiamente rilevato, relativamente ai canali verificati e partner commerciali di Google, la società ha avuto modo e tempo di verificare il rispetto o meno della normativa in parola durante la fase pre-negoziale. A ciò occorre aggiungere che la società, a far data dalla notifica della delibera n 275/22/CONS, ha avuto piena contezza circa la presenza di propri canali partner i cui contenuti editoriali erano in violazione dell’articolo 9 del Decreto Dignità. Dunque, Google non ha dimostrato in alcun modo di aver posto in essere iniziative per impedire in futuro il caricamento di video illeciti all’interno dei canali verificati. D’altra, sia pure con riferimento alla tutela del diritto d’autore, la Corte di Cassazione nella pronuncia n. 7708/2019 ha affermato che l’operatore della società dell’informazione “ha l’obbligo di dimostrare di “aver agito tempestivamente, dopo aver ricevuto una segnalazione sufficientemente motivata dai titolari dei diritti, per disabilitare l’accesso o rimuovere dai loro siti web le opere o altri materiali oggetto di segnalazione e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne il caricamento in futuro”. Ne discende che la consapevolezza circa lo svolgimento di un’attività illecita da parte di utenti (content creators) che utilizzano la piattaforma YouTube, ben avrebbe dovuto indurre Google ad assumere iniziative per prevenirne l’ulteriore accadimento. Vale su questo punto sottolineare che Google, sebbene abbia immediatamente provveduto a rimuovere le centinaia di migliaia di video puntualmente identificati nell’atto di contestazione e inibito l’accesso ai canali, non ha tuttavia inibito ai content creator in parola di caricare analoghi contenuti violativi dell’articolo 9 del Decreto Dignità. Contrariamente a quanto sostenuto dalla società, nel caso de quo non vi è alcun’introduzione di obblighi generali di sorveglianza quanto, di contro, il rilievo circa l’inopponibilità della clausola di esonero di responsabilità ai sensi dell’articolo 6 del DSA (ex art. 14 della direttiva e-commerce). Ed infatti dei 48 (47 rectius) ci si riferisce solo ai (27) canali verificati su cui Google ha avuto o avrebbe comunque potuto avere piena conoscenza dell’illecito. Dalla semplice visione dei video diffusi attraverso i suddetti canali emerge infatti il chiaro intento di promuovere siti di gioco con vincite in denaro che la piattaforma, attraverso l’attività di verifica automatica ed umana svolta, avrebbe potuto e dovuto riscontrare. Tra questi, si ritiene, in particolare, di dover identificare la responsabilità di Google esclusivamente per quei canali (15) che diffondono contenuti destinati prevalentemente al pubblico italiano, in ragione di quanto previsto dall’articolo 9 del Decreto Dignità mira specificatamente a tutelare gli utenti dai rischi della patologia del gioco d’azzardo. In particolare, rileva la portata lesiva dei contenuti diffusi in relazione all’elevato numero di utenti italiani raggiunti – tenuto conto dell’utilizzo della lingua italiana – e ai ricavi conseguiti in Italia, come risulta dalla documentazione acquista agli atti. Alla luce delle argomentazioni sopra svolte e tenuto conto degli elementi forniti dalla società, si ritiene che tra i vari partner verificati di Google identificati nell’atto di contestazione solo 15 sono quelli cui è ascrivibile la violazione del divieto sancito dall’art. 9 del decreto dignità come di seguito identificati:

Occorre infine precisare che tutta la giurisprudenza richiamata dalla società circa l’esenzione di responsabilità in capo agli hosting provider non ha mai riguardato alcun canale YouTube rientrante tra quelli “verificati”, ma meri canali pubblici rispetto ai quali la società non ha evidentemente alcuna contezza circa i contenuti diffusi se non a seguito di segnalazione o mera attività di verifica proattiva (non richiesta né vietata). Diverso è il caso relativo ai canali verificati su cui la società ha avuto o avrebbe potuto avere conoscenza dell’illiceità dei contenuti diffusi in sede di verifica preordinata alla conclusione del contratto. Ne consegue che l’assenza di un “contratto” pubblicitario in senso stretto non pregiudica la possibilità di definire il lucro che ciascuna parte realizza ai fini della determinazione della sanzione da applicare ove il contenuto diffuso abbia una valenza, diretta o indiretta, promozionale. Un’eventuale interpretazione contraria rischia di svilire l’effetto utile e la ratio della disposizione (cfr. delibere nn. 160/20/CONS, 241/20/CONS, 83/21/CONS). Ciò posto, nel caso in esame, preme rilevare si tratta di utenti che, al pari di tutti gli altri utenti del servizio YouTube, hanno inizialmente aperto un canale (secondo il meccanismo di accettazione delle condizioni generali di contratto predisposte da Google per il servizio YouTube), e che tuttavia, in ragione del “successo” di tale canale per i video caricati e relative visualizzazioni e iscrizioni, hanno sottoscritto contratto di natura economica con Google, divenendone partner commerciali a seguito di attenta attività di verifica circa la tematicità del canale. Il caso in esame, infatti, non verte su un singolo contenuto caricato da un utente privato una tantum o comunque sporadicamente, bensì su un elevatissimo numero di video, caricati da alcuni specifici utenti, spesso con cadenza giornaliera, tutti consistenti in una manifesta promozione di giochi con vincite in denaro disponibili su una pluralità di canali. Non appare condivisibile neppure l’affermazione in base alla quale Google non trae alcun profitto dai contenuti pubblicati sui canali YouTube, ma solo dagli annunci che gli inserzionisti pubblicano, in quanto sono i video caricati dagli utenti che consentono alla piattaforma di veicolare la pubblicità degli inserzionisti verso coloro che visualizzano quei contenuti. In particolare, come si dirà in seguito, è la piattaforma stessa che spinge tutti i creator ad azionare su base volontaria (l’utente che carica un contenuto può infatti decidere di escludere dalla visione del proprio video caricato la pubblicità da parte di YouTube) la pubblicità in pre-roll, in quanto Google guadagna da tutti i messaggi pubblicitari che veicola sui contenuti degli utenti, circostanza che comporta una compartecipazione nella remunerazione della piattaforma stessa. 3.4. Sul regime di responsabilità di Google in ragione della sua natura di hosting provider. In tema di responsabilità, Google ritiene di poter beneficiare del regime speciale di esenzione delineato dal quadro normativo di riferimento, in ragione della propria natura di hosting provider per la piattaforma di condivisione video YouTube. A tale riguardo, Google richiama, in particolare, l’articolo 16 del Decreto e-commerce (oggi articolo 6 del DSA), nonché la relativa giurisprudenza unioniale e nazionale sul tema, da cui emergerebbe che “[…] nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite” (articolo 17 del Decreto e-commerce, oggi articolo 8 del DSA). Orbene, la disciplina richiamata prevede espressamente che il prestatore possa invocare l’esenzione di responsabilità laddove ricorra una o entrambe le seguenti condizioni: (1) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita, e (2) “non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”. Come si dirà nei successivi paragrafi, la tesi sostenuta dalla Società in base alla quale la responsabilità dell’hosting provider per la mancata rimozione dei contenuti sorge solo a seguito di una “comunicazione delle autorità competenti” non appare accoglibile essendo quest’ultima ipotesi solo una delle due previste eccezioni per poter invocare l’esenzione di responsabilità. Infatti, sebbene l’articolo 8 del DSA (ex articolo 17 del Decreto e-commerce) preveda che l’hosting provider non abbia un obbligo generale di controllo delle informazioni memorizzate, né un obbligo generale di cercare attivamente fatti o circostanze che indichino un’attività illecita, è altresì chiaro che al fine di poter invocare l’esenzione generale di responsabilità la piattaforma non deve essere in alcun caso a conoscenza dell’illiceità del contenuto trasportato. La conoscenza effettiva dell’illiceità dei contenuti trasportati rende infatti responsabile la piattaforma stessa a prescindere dalla segnalazione derivante dall’autorità amministrativa o giudiziaria competente. A tal riguardo, è necessario osservare che, con specifico riferimento alla natura di hosting provider, il Decreto dignità ha inteso adottare una norma generale che non consente in alcun modo di promuovere direttamente o indirettamente giochi con vincite in denaro. In altre parole, il legislatore italiano ha introdotto un divieto assoluto del tutto analogo a quello in tema di pubblicità del tabacco. Si tratta, infatti, di previsioni che non consentono alcun margine di discrezionalità nei confronti dei soggetti destinatari di qualunque servizio. Tale divieto è ancora più stringente nei casi in cui, come quello in oggetto, i contenuti diffusi rientrano in più canali, presenti da diversi anni, ben identificati e noti a Google e con i quali intrattiene regolarmente rapporti economici in forza di un contratto stipulato tra le parti. Tale condizione è dunque profondamente diversa rispetto agli innumerevoli contenuti caricati dagli utenti senza alcuna compartecipazione alle procedure di monetizzazione, per i quali è oggettivamente e tecnicamente complesso ipotizzare meccanismi di vigilanza preventiva. Occorre, infatti, rilevare che la disciplina giuridica dell’hosting provider è risalente (introdotta infatti dalla direttiva 2000/31/CE, cd. Direttiva e-commerce) e che, proprio in ragione del rapidissimo sviluppo tecnologico, la stessa è stata oggetto di numerosi chiarimenti e mutamenti giurisprudenziali che ne hanno tracciato una più puntuale perimetrazione soggettiva (addivenendo anche alla nota distinzione tra hosting attivo e passivo). Con specifico riferimento alla giurisprudenza nazionale e, in particolare, unionale, questa si è pronunciata in più occasioni sulla nozione di hosting provider (Cassazione Civile Sez. I, sentenza n. 39763/2021, Cassazione Civile Sez. I, sentenza n. 7708/2009, Corte di giustizia UE 7 agosto 2018, Cooperatieve Vereniging SNBREACT U.A. c. Deepak Mehta, C-521/17, Corte di giustizia UE 11 settembre 2014, C-291/13, Sotiris Papasavvas, Corte di giustizia UE 12 luglio 2011, C-324/09, L’Oréal c. eBay International, Corte di giustizia UE 23 marzo 2010, da C-236/08 a C-238/08, Google c. Luis Vuitton) chiarendo che il regime generale di esenzione di responsabilità è in primis soggetto al rispetto delle due condizioni previste dall’articolo 16 del Decreto e-commerce sopra menzionate. In particolare, è stato chiarito che occorre verificare in concreto (case by case) l’eventuale partecipazione della piattaforma rispetto ai contenuti da essa veicolati. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha, infatti, rilevato che è sufficiente che il prestatore di servizi sia stato, in qualunque modo, al corrente di fatti o circostanze in base ai quali un operatore economico diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità di cui trattasi e agire conformemente all’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della citata Direttiva e-commerce (sentenza del 12 luglio 2011, L’Oréal C‑324/09, EU:C:2011:474, punto 122). Inoltre, e più di recente, la Suprema Corte di cassazione (sez. I Civile, sentenza n. 7708/2019) ha precisato che “(l)a figura dell’hosting provider attivo va ricondotta alla fattispecie della condotta illecita attiva di concorso. […] Gli elementi idonei a delineare la figura o “indici di interferenza” da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono – a titolo esemplificativo e non necessariamente tutte compresenti – le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti/ operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l’adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l’effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati” (enfasi aggiunta) . Ed ancora, la medesima Corte ha chiarito, proprio in linea con quanto già affermato in merito alla conoscenza dei contenuti trasportati dalla piattaforma, da ultimo e per quanto qui di interesse, che in ragione dello specifico ruolo svolto dalla piattaforma è possibile rilevare almeno due diverse figure: hosting provider attivo e passivo, affermando, al riguardo, che “i servizi prestati on line e, segnatamente, l’attività di hosting hanno subito nel corso degli ultimi anni un’evoluzione radicale. La cernita ed il riordino dei contenuti, lungi dall’essere assorbiti dalla nozione di mera memorizzazione, sono invece oggigiorno il cuore dell’attività economica di un hosting provider. Grazie a sistemi di data mining (insieme di tecniche e metodologie che hanno per oggetto l’estrazione di informazioni utili da grandi quantità di dati attraverso metodi automatici o semi-automatici e il loro utilizzo scientifico, aziendale, industriale o operativo) e di elaborazione massiva di big data, questi prestatori di servizi sono in grado di trarre enormi guadagni dalla loro attività di hosting. Attraverso complessi sistemi di profilazione dell’utenza, gli operatori hanno la capacità di intercettare le preferenze dell’utenza, in modo da variare l’offerta dei contenuti a seconda dei 9 di 16 destinatari e di aumentare a dismisura le visualizzazioni, di fatto contribuendo, in modo causalmente determinante, alla diffusione o meno di prodotti illeciti. Traendo le dovute conclusioni, è evidente che i fatti accertati giustificano l’inquadramento dell’attività svolta dalla ricorrente nel paradigma dell’hosting provider attivo.” (così Cass., ordinanza del 13 dicembre 2021, n. 39763). In altri termini, osserva la Cassazione, l’evoluzione tecnologica e la capacità di elaborare in modo automatizzato quelle informazioni e quei dati, che prima erano solo “ospitati”, temporaneamente o definitivamente sui server, comporta che oggi essi siano “elaborati” per trarre ulteriori profitti e, quindi, risulta oggi non più predicabile alcuna presunzione di “ignoranza” sui contenuti ospitati per conto terzi. In base a quanto illustrato, si ritiene, in particolare, che Google non possa invocare nel caso in esame la clausola di esenzione di responsabilità essendo, invece, “edotta” dei contenuti veicolati dai utenti verificati e partner di Google e del livello di interesse da tali contenuti generato tra i fruitori, comprovato dalla circostanza che ha ammesso ai singoli creator a diventare “creator partner”, ciò senza considerare che i video si pongano in contrasto con il divieto sancito dal citato articolo 9 del Decreto dignità in quanto gli stessi pubblicizzano siti di giochi online con vincite in denaro. In particolare, con specifico riguardo alla posizione di Google e alla qualificazione dell’attività svolta, dagli atti del procedimento è emerso come la Società non si limiti ad ospitare presso i propri server, con modalità puramente tecniche, passive ed automatiche, i contenuti caricati dagli utenti. Occorre rilevare, in particolare, che i canali oggetti di contestazione, come descritto dalla stessa Società, si differenziano chiaramente e nettamente dal ben più ampio numero di altri canali e semplici video caricati dagli utenti, in quanto rientrano nel “Programma di partner di YouTube” in ragione di una specifica valutazione svolta da Google e di un puntuale contratto stipulato tra le parti. Ed infatti, come emerge dall’atto di contestazione, ciascun canale ha un proprio catalogo con diverse centinaia di video di identica natura editoriale, ossia pubblicazione di siti internet con vincite in denaro e decine di miglia di utenti iscritti. Proprio in ragione di tale rilevante diffusione dei sopra richiamati canali, il creator – superate per ciascun canale le soglie previste dalle condizioni generali del contratto di Google, ossia “avere più di 4000 ore di visualizzazione pubbliche valide negli ultimi 12 mesi” e “avere più di 1000 iscritti” – ha chiesto ed ottenuto di aderire al “Programma di 47 di YouTube”, ottenendo quindi lo status di “Partner verificato” e partecipando conseguentemente a una quota parte dei ricavi percepiti, nelle misure sopra richiamate nelle tabelle 1 e 2, da Google e relativi alla pubblicità (in modalità c.d. pre-roll) diffusa prima della fruizione di ciascun video contenuto in ciascuno dei canali verificati e partner commerciali, rivolti al pubblico italiano. Inoltre, come analiticamente illustrato nella “panoramica e requisiti di idoneità del Programma partner di YouTube – Guida di YouTube”, prodotti da Google unitamente alle proprie memorie difensive, si legge espressamente che “la domanda può essere presentata da chiunque raggiunga la soglia richiesta (id est raggiungimento di almeno 1000 iscritti e 4000 ore di visualizzazione pubbliche valide), a condizione che vengano rispettate alcune linee guida”. Una volta compilata la domanda e sottoscritti i termini del Programma partner di YouTube, l’utente deve attendere “l’esito della revisione”. Su tale specifica fase Google precisa, nel predetto documento, che “[…] i nostri sistemi automatici e i nostri revisori esamineranno i contenuti del tuo canale per verificare che il tuo account rispetti tutte le nostre linee guida. Puoi verificare lo stato della domanda in qualunque momento alla pagina https://studio.youtube.com/channel/UC/monetization” e che “Ti ricontatteremo per comunicarti la nostra decisione una volta terminata la revisione del tuo canale (in genere circa un mese dopo il raggiungimento della soglia)” ed ancora, nel porre la domanda circa la possibilità di velocizzare la procedura di revisione, Google, nel richiamato documento, afferma che “No. I nostri team non sono in grado di velocizzare l’elaborazione della tua domanda in particolare. Tutte le domande vengono messe in coda ed elaborate nell’ordine in cui vengono ricevute. Alcuni canali necessitano di più revisioni, soprattutto nel caso in cui i revisori non siano d’accordo sull’idoneità del canale al Programma partner di YouTube. In questi casi, prendere una decisione potrebbe richiedere più tempo” (enfasi aggiunta). Dall’esame della documentazione prodotta in atti da Google, risulta che ciascun utente, in ragione della cd. “viralità” e rilevante diffusività del proprio canale, ha la facoltà di richiedere di diventare Partner di YouTube; emerge, dunque, che Google, prima di concludere il relativo contratto a titolo oneroso, si riserva di verificare il rispetto di una serie di condizioni che legittimano l’adesione al “Programma partner di YouTube”. A tal fine, Google utilizza non solo risorse automatizzate, ma anche umane specificatamente dedicate all’espletamento di detta attività in un arco temporale ragionevole e cioè non meno di 30 giorni. Ne discende, dunque, che dal momento in cui i canali contestati hanno superato le predette attività di verifica, ottenendo quindi lo status di “Partner verificato”, Google è pienamente consapevole non solo del “successo” del canale, ma, anche, necessariamente del suo specifico contenuto proprio in ragione delle verifiche svolte nell’arco temporale previsto ai fini della conclusione del contratto a titolo oneroso. Quanto alla considerazione svolta nella memoria difensiva, con specifico riferimento ai contenuti dei video caricati sulla propria piattaforma YouTube al fine di promuovere beni o servizi, secondo cui Google avrebbe predisposto un insieme di regole che dimostrano gli sforzi posti in essere in buona fede per proteggere i suoi utenti dalla pubblicità vietata nei limiti del suo ruolo di hosting provider, si ritiene, dunque, che l’argomento non sia condivisibile nella misura in cui i canali “verificati” si pongono in contrasto con l’articolo 9 del Decreto dignità. 3.5. Sulla normativa applicabile alla pubblicità del gioco d’azzardo e sulla qualifica di Google quale destinatario della sanzione alla luce delle norme applicabili. Con riferimento all’eccezione sollevata in merito ai destinatari delle sanzioni di cui al Decreto dignità, si osserva, come già evidenziato da ultimo dal giudice amministrativo, che le predette Linee guida, seppure volte ad indirizzare uniformemente l’attività degli uffici, possono essere motivatamente disattese dalla stessa autorità emanante, all’esito di diversa valutazione, come nel caso di specie, non avendo natura di atto amministrativo precettivo (cfr. TAR del il Lazio, sentenza n. 11036/2021). Infatti, come chiarito dal Giudice, la norma primaria non preclude l’applicazione del divieto a soggetti stabiliti all’estero. 3.6. Sull’invalidità della Contestazione per la natura generica delle doglianze Con riferimento alla presunta invalidità dell’atto di contestazione in ragione della natura generica delle doglianze si rappresenta che l’Autorità nel richiamato atto non si è limitata ad individuare gli URL dei singoli video e i relativi canali in violazione della normativa in parola, ma ha altresì incluso tutte le informazioni necessarie per avere piena contezza circa l’illecito riscontrato. Al riguardo, si osserva che l’atto di contestazione in oggetto ha riportato al suo interno tutte le informazioni richieste oggi dall’articolo 9 del DSA ed in particolare: i) un riferimento alla base giuridica dell’ordine a norma del diritto dell’Unione o nazionale; ii) la motivazione per cui le informazioni costituiscono contenuti illegali, mediante un riferimento a una o più disposizioni specifiche del diritto dell’Unione o del diritto nazionale conforme al diritto dell’Unione; iii) informazioni per identificare l’autorità emittente; iv) informazioni chiare che consentano al prestatore di servizi intermediari di individuare e localizzare i contenuti illegali in questione, quali uno o più URL esatti e, se necessario, informazioni supplementari; v) informazioni sui meccanismi di ricorso a disposizione del prestatore di servizi intermediari e del destinatario del servizio che ha fornito i contenuti; vi) se del caso, informazioni in merito a quale autorità debba ricevere le informazioni relative al seguito dato agli ordini”. Inoltre, dei 48 (47 rectius) canali oggetto di contestazione, l’Autorità ha preso atto del fatto che la società, in linea con quanto previsto dall’articolo 6 del DSA, ha immediatamente rimosso i contenuti illeciti. In particolare, nell’atto di contestazione oltre all’individuazione nominale di tutti gli oltre 22 mila video illeciti è stato rilevato che, dalle verifiche effettuate sui suddetti canali YouTube, sono emersi gli elementi di seguito evidenziati: “i video individuati pubblicizzano il gioco d’azzardo mediante la riproduzione di sessioni di gioco registrate o in diretta (di slot machine o video lottery terminal) ovvero attraverso la rappresentazione di consumi di giochi con premi in denaro; – in alcuni casi vengono illustrate le modalità per accedere ai siti di gioco con vincite in denaro, i bonus e i sistemi di pagamento che si possono usare per depositare e ritirare le vincite, anche sotto forma di recensioni; – vengono utilizzate espressioni enfatizzanti il gioco medesimo, e le vincite in denaro, sia tramite audio, sia in forma grafica (anche laddove non sia presente l’audio) nei titoli dei video o in sovrimpressione (mediante l’uso di emoticon, immagini, segni); – tutti i video invitano alla pratica del gioco d’azzardo o comunque incentivano all’acquisto e al consumo di giochi o scommesse con vincite in denaro, così realizzando un’attività promozionale del gioco medesimo nei confronti pubblico; – inoltre, sebbene in diversi casi siano presenti disclaimer iniziali sulla pericolosità del gioco di azzardo e sulla illegittimità dello stesso per i minori di 18 anni, i contenuti video in violazione risultano liberamente accessibili sulla piattaforma YouTube a tutto il pubblico indistintamente senza che vi sia alcuna limitazione all’accesso. Parimenti, non corrisponde al vero quanto affermato da Google circa la presunta lesione dei diritti di partecipazione al procedimento e difesa della Società, in ragione del fatto che le sarebbe stata preclusa la possibilità di comprendere cosa specificamente dovrebbe essere eliminato/rettificato in ciascuno dei video contestati per non incorrere nel rischio di sanzioni. Di contro, come sopra riportato, oltre ad aver indicato le motivazioni circa la presunta illiceità dei contenuti, è stata garantita la possibilità per la società di presentare memorie difensive e partecipare al procedimento per illustrare le proprie ragioni. Infine, con riferimento alla mancata indicazione delle specifiche ragioni circa l’illecito riscontrato in ciascun video, oltre a ribadire che le motivazioni sono state ampiamente riportate nell’atto di contestazione, si rileva che la normativa in parola ha introdotto un divieto assoluto di pubblicità sia diretta che indiretta comunque effettuata tale dunque da non ammettere eccezioni 3.7. Sulla presunta censura e limitazione della libertà di espressione Sulla presunta, arbitrale censura preventiva dei contenuti e conseguente limitazione della libertà di espressione degli utenti, si rileva, come precisato, che non si tratta, nel caso de quo, di una misura ex ante. Come ampiamente illustrato, infatti, Google avrebbe dovuto e potuto riconoscere, ictu oculi, la chiara e palese violazione dell’articolo 9 del Decreto dignità, durante la fase di analisi dell’istanza presentata dal creator e soggetta a verifica umana circa la liceità del contenuto e, dunque, rigettare la richiesta di sottoscrizione del contratto come “Partner Verificato”, nonché, a valle, a cancellare tutti i video presenti sui canali esaminati. Tale valutazione, si ribadisce, non riguarda, di contro, tutti i canali presso i quali vengono caricati video dagli utenti che non richiedono di prendere parte al programma Partner di YouTube e per i quali appare, in tesi, invocabile il regime generale di esenzione di responsabilità previsto dal Decreto e-commerce, fatto salvo il rispetto delle due condizioni ivi previste. 3.8. Sui destinatari della sanzione Con riferimento all’eccezione sollevata in merito ai destinatari delle sanzioni di cui al Decreto dignità, ed in particolare in ragione dell’esclusione prevista dalle Linee guida dell’Autorità relativamente agli Internet Service Provider, si osserva, come già evidenziato da ultimo dal giudice amministrativo, che le predette Linee guida, seppure volte ad indirizzare uniformemente l’attività degli uffici, possono essere motivatamente disattese dalla stessa autorità emanante, all’esito di diversa valutazione, come nel caso di specie, non avendo natura di atto amministrativo precettivo (cfr. TAR del il Lazio, sentenza n. 11036/2021). Ciò posto, come sopra illustrato, in considerazione del ruolo attivo svolto da Google nel caso de quo, la società rientra chiaramente tra i destinatari della norma in parola in qualità di “proprietario del sito web o del mezzo di diffusione o di destinazione”, avendo infatti assunto contrattualmente con il creator e verso gli utenti l’obbligo di verificare il contenuto dei canali che, invece, sono stati utilizzati per la diffusione del messaggio pubblicitario vietato. 3.9. Determinazione dell’importo della sanzione amministrativa. Con riferimento alla determinazione dell’importo della sanzione amministrativa, si rileva che, contrariamente a quanto affermato dalla Società, la sanzione non viene determinata per singolo video caricato e diffuso sulla piattaforma di condivisione di video YouTube, ma in ragione dei relativi canali (n.15) di diffusione verificati e partner commerciali di Google, rivolti al pubblico italiano. Ciò in ragione della unicità ed identità di impostazione di ciascun canale nei confronti del pubblico, in primis gli iscritti e gli abbonati, che caratterizza ciascuno di essi. In merito, invece, alla determinazione dell’ammontare della sanzione, in ragione della “prima e unica contestazione ricevuta da Google da parte di AGCOM, in relazione a YouTube”, si rileva che nel caso specifico non sussiste in capo all’Autorità alcuna discrezionalità, ponendosi i valori economici del rapporto negoziale tra Google e il creator al di sotto dell’importo minimo della sanzione. La normativa in parola prevede, infatti, un’unica misura “di importo pari al 20 per cento del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, a euro 50.000”. L’articolo 9, dunque, non introduce alcun elemento di flessibilità nella determinazione del quantum nell’ipotesi di applicazione della sanzione minima di euro 50.000,00 e, pertanto, nessun valore può essere attribuito alla concreta gravità dell’illecito commesso o all’esistenza di precedenti sanzioni irrogate, così come sostenuto dalla parte, e, quindi non consente graduazioni della sanzione affidate alla valutazione discrezionale di questa Autorità. Nel caso de quo, infatti, i valori dei ricavi dichiarati da Google in corso dell’istruttoria, riferiti a ciascuno dei 15 (quindici) canali comportano necessariamente l’applicazione della sanzione di euro 50.000,00 non residuando, come detto, alcuna discrezionalità in capo all’Autorità. CONSIDERATO che nel procedimento sono stati acquisiti tutti gli elementi istruttori nella piena garanzia del contraddittorio; RITENUTO di confermare quanto rilevato nell’atto contestazione n. 05/23/DSDI per la violazione delle disposizioni contenute nell’articolo 9, comma 1, del Decreto dignità; VISTO il comma 2, dell’art. 9 del decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito con la legge n. 96 del 9 agosto 2018, il quale stabilisce che “l’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 1, comporta a carico del committente, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell’organizzatore della manifestazione, evento o attività, ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo pari al 20 per cento del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, a euro 50.000,00”; ACCERTATO che la Società non ha inteso accedere all’istituto del pagamento in misura ridotta della sanzione amministrativa prevista dall’art. 16, comma 1, della legge n. 689 del 1981; RILEVATO, dunque, che rispetto ai valori dichiarati da Google trova applicazione la sanzione minima pari a euro 50.000,00; RILEVATO che, ai sensi del punto B.1, comma 9, della delibera n. 265/15/CONS: “ove la condotta illecita sia unitaria (seppur frazionata nel tempo) e sia violata più volte la medesima norma, potrà trovare applicazione il cosiddetto “cumulo giuridico” delle sanzioni previsto dalla norma (art. 8 della legge 24 novembre 1981, n. 689), da cui deriva l’irrogazione di un’unica sanzione il cui importo è modulato tenendo conto di tutte le circostanze del caso (ivi compresa, soprattutto, la plurioffensività della condotta ed il suo protrarsi nel tempo)”; CONSIDERATO che, nel caso concreto, infatti, con riferimento alla condotta accertata per ogni singolo canale, ricorre il c.d. concorso formale omogeneo di illeciti, in quanto la condotta illecita, reiterata con cadenza giornaliera e fruibile a richiesta senza soluzione di continuità, può considerarsi unitaria per unicità del fine o dell’effetto, consistendo la stessa nella diffusione di video aventi natura di comunicazione pubblicitaria di giochi d’azzardo e scommesse che ha comportato in capo alla società Google la commissione con una sola azione di più violazioni della medesima disposizione normativa; CONSIDERATO che ciascuno dei 15 canale partner è stato verificato, in diversi momenti, da Google con risorse anche umane per un arco temporale ampio (non meno di 30 giorni) e che, pertanto, la Società ha colposamente omesso di rilevarne la natura promozionale di giochi a pagamento con vincite in denaro, in violazione dell’articolo 9 del Decreto dignità; CONSIDERATO che, nel caso de quo, la condotta, unitariamente rilevata e contestata, si estrinseca in quindici (n. 15) violazioni, una per ogni singolo canale “verificato” e “partner” contenente i suddetti video aventi natura di comunicazione pubblicitaria di siti che svolgono attività di gioco e scommessa con vincite in denaro, in applicazione del cumulo materiale del regime ordinario da applicarsi in tema di quantificazione delle sanzioni amministrative; RITENUTO opportuno ai sensi dell’articolo 8 della legge 689/81 di dover aumentare sino al triplo ciascuna sanzione amministrativa pecuniaria in ragione dell’enorme quantità di video diffusi, del numero di visualizzazioni, di abbonamenti e di iscritti in ciascun canale; RITENUTO, per l’effetto, di dover determinare la sanzione per la violazione delle disposizioni normative contestate nella misura di euro 2.250.000,00 (duemilioniduecentocinquantamila/00) corrispondente alla cornice edittale prevista per i 15 canali “verificati” e partner di Google in cui è stata rilevata la violazione dell’articolo 9 del Decreto Dignità tramite la promozione, attraverso una moltitudine di video ivi caricati, dei siti con vincite in denaro, secondo il principio del cumulo materiale delle sanzioni amministrative, al netto di ogni altro onere accessorio e che in tale commisurazione rilevano altresì i seguenti criteri, di cui all’art. 11 della legge n. 689/1981:

Gravità della violazione Il comportamento posto in essere dalla Società sopra menzionata deve ritenersi di entità elevata in quanto il bene giuridico protetto dalla norma, ossia il contrasto della ludopatia, esige una tutela rafforzata proprio al fine di evitare effetti pregiudizievoli in danno dei consumatori. Opera svolta dall’agente per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze della violazione La Società, a seguito della ricezione dell’atto di contestazione, ha provveduto a chiudere i canali ivi identificati e a rimuovere esclusivamente i video indicati, ma non anche gli ulteriori video compresi nei canali contestati che sono ancora liberamente accessibili su YouTube. Inoltre, la Società continua a consentire a ciascun creator verificato in qualità di partner commerciale di pubblicare quotidianamente contenuti di medesima portata ossia pubblicizzazione di siti di giochi a pagamento con vincite in denaro senza, quindi, aver posto le necessarie misure volte ad eliminare o attenuare gli effetti delle condotte illecite rilevate. C. Personalità dell’agente La Società è dotata di una struttura idonea a garantire una puntuale osservanza delle disposizioni richiamate e, peraltro, si era obbligata contrattualmente a verificare la liceità dei contenuti veicolati tramite i canali “verificati”. D. Condizioni economiche dell’agente Con riferimento alle condizioni economiche dell’agente, si ritiene che esse siano tali da giustificare la complessiva misura della sanzione pecuniaria oggetto del presente atto e tale da indurre a ritenere congrua l’applicazione della sanzione come sopra determinata. RITENUTO, alla luce di quanto sopra illustrato, di dover identificare la responsabilità della società esclusivamente rispetto a quei (15) canali verificati e partner commerciali i cui video siano rivolti al pubblico italiano; RITENUTO, per l’effetto, di dover determinare la sanzione per ciascuna violazione della disposizione normativa contestata nella misura pari a euro 150.000,00 (centocinquantamila,00) per ciascuna delle quindici (n. 15) condotte contestate sopra riportate, per un totale di euro 2.250.000,00 (duemilioniduecentocinquantamila,00) secondo il principio del cumulo materiale delle sanzioni; RILEVATO, inoltre che, in linea con la giurisprudenza nazionale ed europea (Corte giust. 24 novembre 2011, c.70/10, Scarlet Extended SA c. Société belge des auteurs, compositeurs et éditeurs SCRL – SABAM – e Corte giust.16 febbraio 2012, causa C360/10 Belgische Vereniging van Auteurs, Componisten en Uitgevers CVBA – SABAM – c. Netlog NV) e, come visto, in attuazione di quanto previsto specificatamente dalla direttiva e-commerce prima e nel Digital Services Act adesso, sebbene il monitoraggio generale non sia previsto e non possa essere imposto all’hosting, è sempre ammesso un monitoraggio specifico ad un singolo contenuti analoghi o equivalenti; RILEVATO, al riguardo, più di recente, che la Corte di Giustizia dell’Unione europea è tornata sul tema affermando che “sebbene il citato articolo 15, paragrafo 1 vieti agli Stati membri di imporre ai prestatori di servizi di hosting un obbligo generale di sorvegliare le informazioni che trasmettono o memorizzano, o un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite, come emerge dal considerando 47 della direttiva in parola, tale divieto non riguarda gli obblighi di sorveglianza «in casi specifici»” (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza del 3 ottobre 2019 C-18/18). La Corte europea ha infatti ricordato che i prestatori di servizi di hosting possono sempre e comunque essere destinatari di provvedimenti ingiunzioni “anche nell’ipotesi in cui non sia considerato responsabile” e che le Autorità degli Stati membri devono “prendere rapidamente provvedimenti, anche provvisori, atti a porre fine alle violazioni e a impedire ulteriori danni agli interessi in causa”; RILEVATO, altresì, che il cd principio di notice and stay down sopra richiamato è stato di recente richiamato anche dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 7708/2019 in cui veniva ordinato ad un operatore “un obbligo di astenersi di pubblicare contenuti illeciti dello stesso tipo di quelli già riscontrati come violativi dell’altrui diritto” nonché dalla direttiva copyright (2019/790) all’articolo 17, par. 4 lett. c) ai sensi del quale un prestatore di servizi di condivisione di contenuti, al fine di poter beneficare dell’esenzione di responsabilità, ha l’obbligo di dimostrare di “aver agito tempestivamente, dopo aver ricevuto una segnalazione sufficientemente motivata dai titolari dei diritti, per disabilitare l’accesso o rimuovere dai loro siti web le opere o altri materiali oggetto di segnalazione e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne il caricamento in futuro”; RILEVATO, infine, che anche il Tribunale civile di Milano si è pronunciato su detto aspetto adottando sin anche delle ordinanze dinamiche (c.d. “dynamic injunctions”) che hanno previsto “un divieto di ripetizione dell’illecito, nonché il divieto di mettere a disposizione, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma tali materiali […] e delle informazioni idonee al loro reperimento in rete” (Tribunale di Milano Sezione XIV Sezione specializzata in materia di impresa, sentenza nella causa civile di I Grado iscritta al n. 30185/2019 R.G. del dell’8 settembre 2022; in senso analogo cfr. Tribunale di Milano Sezione XIV Sezione specializzata in materia di impresa, sentenza nella causa civile di I Grado iscritta al n. 30185/2019 R.G. del dell’8 settembre 2022); VISTI gli atti del procedimento; UDITA la relazione del Commissario Laura Aria, relatore ai sensi dell’art. 31 del Regolamento concernente l’organizzazione ed il funzionamento dell’Autorità;

ORDINA

alla società Google Ireland Limited, con sede legale a Gordon House, Barrow Street, Dublino 4 (Irlanda) 4. di pagare la sanzione amministrativa di euro 2.250.000,00 (duemilioniduecentocinquantamila/00), al netto di ogni altro onere accessorio eventualmente dovuto, per la violazione delle disposizioni contenute nell’articolo 9, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito con la legge 9 agosto 2018, n. 96 5. di rimuovere dalla piattaforma di condivisione di video “YouTube” i tutti video contenuti nei canali 15 canali verificati e partner commerciali di Google sopra identificati caricati successivamente alla notifica dell’atto di contestazione ed ancora disponibili, entro e non oltre sette giorni dalla data di notifica del presente provvedimento, e di darne comunicazione all’Autorità entro 10 giorni dall’avvenuta rimozione all’indirizzo di posta certificata [email protected]; 6. di rimuovere dalla piattaforma di condivisione di video “YouTube” i video caricati successivamente alla notifica della presente delibera dai 15 content creator sopra identificati i cui contenuti siano analoghi o equivalenti a quelli oggetto del presente procedimento e di darne comunicazione all’Autorità entro 10 giorni dall’avvenuta rimozione all’indirizzo di posta certificata [email protected]

INGIUNGE alla citata società di versare la predetta somma alla Sezione di Tesoreria Provinciale dello Stato di Roma, utilizzando il c/c n. 871012 con imputazione al capitolo 2380, capo X, bilancio di previsione dello Stato o mediante bonifico bancario utilizzando il codice IBAN n. IT 42H 01000 03245 348 0 10 2380 00, evidenziando nella causale “Sanzione amministrativa irrogata dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con delibera n. 317/23/CONS”, entro trenta giorni dalla notificazione del presente provvedimento, sotto pena dei conseguenti atti esecutivi a norma dell’art. 27 della citata legge n. 689/81. La Società ha facoltà di chiedere il pagamento rateale della somma dovuta, entro e non oltre 30 giorni dalla data di notifica della presente delibera, mediante istanza motivata da presentare al protocollo generale dell’Autorità attraverso posta elettronica certificata all’indirizzo [email protected], secondo le modalità previste dall’ allegato 1 in calce al Regolamento stesso recante “Rateizzazioni delle sanzioni ammnistrative pecuniarie – Istruzioni per gli Operatori”. L’istanza di rateizzazione è indirizzata al Servizio programmazione, bilancio e digitalizzazione. Entro il termine di dieci giorni dal versamento, dovrà essere inviata in originale, o in copia autenticata, a quest’Autorità quietanza dell’avvenuto versamento, indicando come riferimento “Delibera n. 317/23/CONS”

DIFFIDA la medesima Società dal porre in essere ulteriori comportamenti in violazione delle disposizioni richiamate. cdn/AGIMEG