Operatori di gioco e conti bancari “offline”: siamo ancora dentro la Costituzione? – di Roberto Fanelli

“Qui tutto è fermo. Anche il vento”. Il bellissimo verso del poeta Vincenzo Cardarelli campeggia al belvedere del Paese che gli ha dato i natali; ma potrebbe anche andare molto bene come epitaffio per il settore del gioco.

Infatti, tra sale chiuse, concessioni in scadenza, leggi regionali espulsive, crescita esponenziale del gioco illegale, non si vede nulla di buono all’orizzonte; anzi, non si vede nemmeno l’orizzonte: “tutto è fermo”.

L’unica cosa che si muove sono le notizie negative, come quella presa da un tribunale della Repubblica, in relazione, ovviamente, ad un operatore di gioco, secondo cui “le banche possono chiudere conti anche per motivi etici e se non approvano un certo tipo di attività”.

Non bastasse la difficoltà di reperire garanzie bancarie o assicurative di una qualche affidabilità, pur obbligatorie per legge e previste dalle convenzioni o dai contratti di gioco, si è affermato che, in virtù dell’art. 41 della Costituzione, “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Quindi (escluso che un centro scommesse possa recare danno alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana), in assenza di una specifica previsione legislativa, si deve ritenere che ciascuna delle parti abbia la facoltà, per proprie convinzioni etiche, di decidere di avvalersi del diritto di recesso che viene riconosciuto nel regolamento del contratto, chiudendo quindi unilaterlamente un conto corrente oppure rifiutandosi di aprirlo.

In proposito, si osserva che l’attività bancaria consiste, come noto, principalmente nella raccolta di risparmio tra il pubblico e nell’esercizio del credito. In particolare, l’art. 10, c. 1, primo periodo del D. Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (T.U.B.) – emanato tenuto conto dell’art. 25 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, concernente l’attuazione della seconda direttiva di coordinamento in materia bancaria n. 89/646 del 15 dicembre 1989 – stabilisce che “la raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria”. Il comma 2 aggiunge che “l’esercizio dell’attività bancaria è riservato alle banche”.

Momenti essenziali e necessari dell’attività bancaria sono, quindi: a) la raccolta del risparmio fra il pubblico e b) l’esercizio del credito. La raccolta del risparmio “tra il pubblico” significa che la raccolta deve rivolgersi ad una massa indiscriminata di risparmiatori; infatti, considerato che tale attività “è riservata alle banche”, il “pubblico” non può rivolgersi ad altri soggetti.

Da tale rilievo emerge la prima obiezione alla pronuncia sopra ricordata, in quanto se si accetta che una banca può rifiutarsi di aprire un conto corrente per motivi “etici” nei confronti di un’intera categoria (facendo, quindi, salvi casi “eccezionali” o oggettivamente anormali e, quindi, singolarmente individuabili) si impedirebbe, almeno in astratto, a quella categoria economica di poter fare impresa ove tutte le banche adottassero il medesimo criterio.

La circostanza che non tutti i regolamenti delle banche contengano tali previsioni (peraltro, è noto che ad oggi sono molteplici gli istituti di credito che rifiutano di intrattenere rapporti economici con operatori di gioco) non assume alcun rilievo, poiché, altrimenti, la liceità o meno di tali politiche verrebbe fatta dispendere da una situazione di fatto (cioè, sarebbe lecita se lo fanno poche banche, non lo sarebbe se lo fanno tutte le banche), difficilmente accertabile.

La portata della pronuncia, in sostanza, violerebbe, almeno in via di principio, proprio la norma costituzionale che il giudice voleva tutelare (art. 41 Cost.).

Occorre, inoltre, considerare che le politiche dello Stato, soprattutto quelle più recenti, tendono ad incentivare l’utilizzo di moneta elettronica ed il divieto dell’uso di denaro contante. Tali pratiche, come a tutti è noto, sarebbero inattuabili senza l’intervento degli istituti di credito. L’attività delle banche, che è autorizzata e regolamentata dallo Stato, non può quindi risolversi in un impedimento all’applicazione di normative primarie.

In proposito, uno spunto interessante lo si può trovare nell’art. 12 del D.L. n. 201/2011 che, introducendo (allora) il divieto all’uso del contante a 1.000 euro (comma 1) e l’obbligo per le Pubbliche amministrazioni di effettuare le operazioni di pagamento “in via ordinaria mediante accreditamento sui conti correnti …” (comma 2), ha previsto che il Ministero dell’economia e delle finanze, la Banca d’Italia, l’Associazione bancaria italiana, la società Poste italiane Spa e le associazioni dei prestatori di servizi di pagamento definissero con apposita convenzione (poi stipulata), le caratteristiche di un conto corrente o di un conto di pagamento “di base” (comma 3) e che “Le banche, la società Poste italiane Spa e gli altri prestatori di servizi di pagamento abilitati ad offrire servizi a valere su un conto di pagamento sono tenuti a offrire il conto di cui al comma 3” (comma 4).

La norma, pur se riferita ad una fattispecie particolare e relativa al c.d. “conto corrente di base”, contiene in sé un principio di carattere generale, vale a dire che le pur legittime convinzioni etiche di un “privato”, che svolge un’attività di rilievo generale, autorizzata dallo Stato, non possono prevaricare l’attività economica di altri soggetti se anche questa è lecita e autorizzata dallo Stato. rf/AGIMEG