“Le sentenze della CGE sul settore gioco in Italia sono sempre più stringate: segno che anche loro ne hanno avuto abbastanza”. Così Stefano Sbordoni, avvocato esperto di gaming, commenta la sentenza di ieri della Corte di Giustizia sulla clausola che prevedeva la cessione gratuita della rete di raccolta. Una sentenza che secondo Sbordoni “ha come al solito suscitato un entusiasmo ingiustificato. Non ci sono né vincitori né vinti, e tantomeno vittime. È chiaramente statuito che la clausola in discussione non ha discriminato nessuno. La valutazione di un eventuale sproporzione è rimessa al giudice interno”.
In Europea, nell’arco di pochi anni, il numero di Paesi che ha regolamentato il settore è aumentato in maniera esponenziale. E lo hanno fatto Paesi di peso, come Francia e Spagna, e soprattutto la Gran Bretagna. Le istituzioni e i giudici comunitari stanno lasciando uno spazio sempre più ampio agli Stati Membri sulla regolamentazione del gioco?
Il clima di caccia alle streghe – che da noi è esasperato – lo stanno affrontando anche altri Paesi, anche se di molto mitigato. Vedi la Gran Bretagna sulle Fobt. Questo ha spinto molti Paesi a adottare una regolamentazione specifica sul gioco. Gli altri che ancora non si sono mossi in questo senso vedono comunque la regolamentazione come un’opportunità. A livello Comunitario, invece, la CGE nella sentenza di ieri ha ribadito ancora una volta che devono esere rispettati i principi di libera prestazione di servizi e di libertà di stabilimento, ma per assicurare determinate esigenze sono ammesse delle eccezioni.
Ma c’è una tolleranza via via crescente sulle eccezioni: qualche anno fa magari la Corte avrebbe bocciato in maniera più netta la clausola, e forse tutta la gara…
In effetti, l’affermazione di quel principio sembra che sia diventato ormai un passaggio obbligato. In ogni sentenza viene premesso che esiste il principio, e quindi che sono ammesse le eccezioni. A quel punto lo Stato deve rappresentare le eccezioni, e quindi si passa a definire i particolari. Il problema è che per giustificare un’eccezione bisogna ammettere che esistono dei problemi specifici, l’esempio classico è l’esigenza di contrastare la criminalità. Questo ovviamente aumenta l’allarme con cui viene visto il settore, e l’opinione pubblica spinge perché vengano adottate norme ancora più restrittive. Norme che poi finiscono di fronte alla Corte di Giustizia
E’ il caso della clausola sulla cessione della rete?
Esattamente. Secondo quanto ha detto l’Avvocatura, quella clausola serviva a impedire che un soggetto decaduto continuasse a operare illegalmente. All’inizio – quella clausola in realtà è sempre esistita – serviva a garantire la continuità del servizio: astrattamente i Monopoli dovevano essere in grado di gestire la raccolta autonomamente, o di affidarla a un altro operatore, se il rapporto con il concessionario originario si fosse interrotto. Inoltre si intendeva evitare che operatori illegali si espandessero negli spazi – in senso lato – lasciati vuoti dal concessionario cessato, o che si appropriasse degli strumenti di raccolta. Ma poi è stata appesantita. Non bisogna dimenticare però che nel nostro ordinamento lo Stato si riserva il monopolio sul gioco, e poi ne affida la gestione a soggetti privati. L’affidamento prevede che il concessionario allestisca una rete, ma di fatto il titolare resta lo Stato.
Quella clausola però si innesta su 15 anni di gare sbagliate
c’è stato un gap temporale tra mercato e norma, che ha causato un inseguimento sempre affannoso. Questo ha creato contenzioso e portato spesso i giudicanti a trarre conclusioni leggere. Ma in questo caso probabilmente, quella clausola è stata strumentalizzata: i candidati avevano a disposizione altri rimedi piuttosto che non partecipare alla gara. Il concessionario, nei cui confronti fosse stata attivata, avrebbe potuto eccepire che era sproporzionata. Probabilmente è la valutazione che hanno fatto i 2mila soggetti che si sono aggiudicati la concessione e che lavorano. lp/AGIMEG