Tenere chiuso o vietare il gioco legale è favorire le Mafie: lo dice la storia! – di Roberto Fanelli

Pur essendo vero che agli inizi degli anni duemila l’intervento pubblico nel settore dei giochi ha avuto come principale obiettivo quello di raccogliere risorse finanziarie aggiuntive rispetto alle entrate tributarie ed extratributarie, oramai sia il regolatore pubblico sia gli operatori del mercato hanno capito, da tempo, l’importanza che vengano poste in essere politiche di riduzione controllata del gioco, accompagnate dal azioni di controllo e prevenzione (del rischio di accesso dei minori al gioco, di tutela della salute, per la salvaguardia della sicurezza sociale e della fede pubblica).

Lo tsunami del Covid ha fatto capire ai più che la riduzione dell’offerta legale di gioco porta, quale co-conseguenza l’incremento del gioco illegale, molto spesso gestito da mafie o cartelli creati dalla criminalità organizzata. Il contrasto al gioco illegale e al gioco minorile può essere attuato tanto più efficacemente quanto più il gioco transita dalle reti legali, per il tramite di soggetti economici riconosciuti ed autorizzati dallo Stato.

Gli operatori economici hanno anche capito che una maggiore regolamentazione, anche stringente, del gioco pubblico ed una contenuta riduzione dell’offerta possono portare benefici a tutto il comparto; tuttavia, è innegabile che tanto più si combatte e si riduce l’area del gioco legale (con divieti poco ragionati e spesso irragionevoli) quanto più si favorisce l’espansione del gioco illegale. Ciò è molto più che probabile: è provabile, come emerge dall’analisi del trend delle somme giocate nel periodo antecedente alla regolarizzazione del gioco (fine anni ’90 e primi anni 2000).

A fronte di un ammontare di somme giocate legalmente (scommesse ippiche, lotterie, giochi numerici) in costante crescita negli anni dal 1991 al 1999 (da 8 miliardi di lire del 1991 a 18 miliardi del 1999) negli anni 2000 e 2001 si assiste ad una brusca frenata, passando a 15 miliardi e poi a 14 miliardi. Secondo uno studio uscito nel 2002, cioè prima della regolarizzazione delle slot, “la caduta del volume del gioco dai consumi del 1999 … è in gran parte addebitabile alla diffusione di apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici, così come vengono definiti i videopoker, fun-games e le slot-machines” (G. Imbucci, mercato ed etica del gioco pubblico, pagg. 34 e ss.).
Secondo tale studio, “nel corso del 1999 si è andata consolidando una rete di videopoker di circa 200.000 apparecchi distribuita sotto casa e gestita da piccoli esercenti coinvolti dall’alta rimuneratività, dall’assenza di controlli legali e dalla pericolosa pressione dei distributori. Da indagini sul campo effettuate dall’Osservatorio Internazionale sul Gioco dell’Università di Salerno nell’area nocerino-sarnese si è potuto rilevare con ragionevole approssimazione … (che) la rete distributiva dei videopoker secondo calcoli approssimati per difetto attualmente si compone di circa 500.000 apparecchi. Essa può sottrarre un volume di gioco che oscilla tra 15 e 25 miliardi. Qui però con forza si denuncia non tanto la sottrazione di introiti all’erario e la connessa accumulazione del profitto criminale ma piuttosto l’esistenza stessa di questa rete dotata di micidiale pericolosità sociale, senza alcun controllo, annidata sotto casa”.

Nella “Relazione sulle infiltrazioni mafiose del gioco lecito e illecito” approvata il 20 luglio 2011 dalla Commissione Parlamentare “antimafia”, si afferma che, nell’anno 2006 (terzo anno dall’introduzione degli apparecchi da gioco legali), la raccolta effettiva derivante dai predetti apparecchi “ammonterebbe a 43,5 miliardi di euro”, a fronte di una raccolta ufficiale che, in tale anno, era pari a 15,4 miliardi di euro. Dopo 5 anni la raccolta attraverso questi dispositivi era pari a circa 50 miliardi di euro, mettendo quindi in evidenza che una parte consistente della raccolta illegale stimata per il 2006 fosse stata gradualmente assorbita dalla rete ufficiale.

Da quanto sopra emerge con sufficiente certezza che politiche di divieto assoluto o semi-assoluto del gioco pubblico favoriscono il ritorno della illegalità e non riducono i giocatori ma riducono le imprese e gli occupati del settore a favore di imprese che operano nell’illegalità, con tutto ciò che questa comporta.
Le aree da cui il gioco legale è stato allontanato (per esempio, in alcune regioni italiane) sono occupate da nuove forme di gioco illegale: nei bar dove c’erano le slot di Stato, espulse perché troppo vicine ai luoghi sensibili, ora ci sono i c.d. “totem” (smartphone, pc, tablet) mediante i quali è possibile collegarsi a siti non autorizzati e giocare, al di fuori di qualunque controllo da parte dello Stato, anche somme molto elevate.

Dovrebbe essere, quindi, chiaro che l’opzione non è tra “gioco SI” e “gioco NO” ma tra gioco legale e gioco illegale.  Non si tratta di scegliere tra bene e male: è una questione di scelte politiche, di vantaggi, di decisioni da prendere, di rischi da assumersi. Affermare, come si sente molto spesso, che il gioco deve essere vietato “a prescindere”, secondo una chiave di lettura ideologica, significa non voler affrontare i problemi con senso di realtà, verificando, tra le differenti opzioni, quelle che comportano più vantaggi o, se preferite, meno svantaggi per la collettività. Quando si espelle il gioco legale, favorendo così il gioco illegale, è inutile dire che tanto poi si faranno i controlli, perché sarebbe come cercare di asciugare l’acqua sul pavimento lasciando aperto il rubinetto!!
Ecco perché tutti dovrebbero impegnarsi ancora di più a sostegno del gioco attraverso le reti legali, considerando, peraltro, che gli introiti che derivano dal gioco possono esser utilizzati per una serie di attività mentre i proventi che derivano dal gioco illegale finiscono nelle mani della criminalità organizzata. rf/AGIMEG