“I titolari dei cd. punti di commercializzazione, possono svolgere attività di commercializzazione di ricariche; distribuire lo schema di contratto di conto di gioco; trasmettere al titolare di sistema il contratto di conto di gioco sottoscritto dal giocatore. Non possono invece ” raccogliere giocate; riscuotere poste di gioco; liquidare vincite, rimborsi e crediti di gioco, in tal modo limitandosi a fornire un supporto tecnico al giocatore, senza intercedere in alcun modo nel contratto di scommessa, che appunto non ammette la partecipazione di un soggetto estraneo alla realizzazione del sinallagma contrattuale”. A chiarire in maniera definitiva la differenza tra l’attività legale e quella illegale dei punti di commercializzazione ci ha pensato la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione. Al centro della questione ancora quegli esercizi collegati a operatori con concessione che si dovrebbero limitare alla vendita di ricariche dei conti di gioco, e che invece svolgono un ruolo attivo nell’accettazione delle scommesse e nella riscossione delle vincite. Il centro in esame – attivo a Gallipoli, in provincia di Lecce – era privo di licenza di pubblica sicurezza, e formalmente svolgeva l’attività di copisteria e internet point. Già l’insegna tuttavia “reca(va) l’univoco richiamo all’operatore di scommesse” cui era collegato. Ma poi, tutta una serie di altri elementi dimostravano il fatto che l’attività principale fosse la raccolta di scommesse: la Guardia di Finanza di Gallipoli con una serie di accertamenti ha appurato “la presenza di sei computer fruibili dal pubblico, di due macchine a disposizione del banco dell’esercente e di due giornali sportivi dedicati. Negli otto computer venivano rintracciate, in esito ad accertamento irripetibile, memoria di “numerosissime giocate su eventi sportivi effettuate nei giorni precedenti da svariati scommettitori”, tant’è che nei cestini della spazzatura erano rinvenute tre ricevute di scommesse sportive, unitamente a due palinsesti relativi ad eventi sportivi”. Inoltre un testimone ha dichiarato che per il titolare dell’esercizio era “una consuetudine” riscuotere le giocate e pagare le eventuali vincite. La Cassazione chiarisce quindi che “non sussiste l’intermediazione penalmente rilevante se il giocatore è titolare di proprio conto gioco ed interagisce direttamente con il bookmaker, mentre il profitto del titolare del locale deriva esclusivamente dal costo del noleggio della postazione internet da parte del cliente, nonché dalla provvigione della commercializzazione della ricarica del conto gioco, che corrisponde ad una provvista e non si identifica con l’esatto importo della singola giocata”. Il punto di commercializzazione, in sostanza, anche se “contrattualmente legato ad un concessionario regolarmente autorizzato dall’AAMS”, si deve limitare “a svolgere un’attività di mero supporto tecnico a beneficio dello scommettitore titolare del contratto di conto di gioco con il concessionario”; altrimenti commette il reato di raccolta illegale di scommesse. rg/AGIMEG