La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha respinto il ricorso contro la custodia cautelare in carcere intentato da un imprenditore calabrese, accusato in buona sostanza di aver creato una serie di attività grazie ai soldi del clan Tegano, le imprese venivano poi utilizzate anche per riciclare i soldi del clan. Tra queste anche una sala bingo, poi intestata fittiziamente a un prestanome “al fine di eludere l’applicazione delle misure di prevenzione e di agevolare la commissione dei delitti di riciclaggio e reimpiego”. La Cassazione sottolinea che la posizione dell’uomo è stata ricostruita grazie alle dichiarazioni di alcuni collaboratori. Questi “inquadrano l’indagato all’interno della cosca, che gli aveva permesso l’apertura della Sala Bingo, la cui attività era però rimasta sotto il controllo della consorteria, che ne percepiva i profitti”. Il Tribunale di Reggio Calabria – nel disporre la custodia cautelare in carcere – “ha ricordato che l’indagato, gestore della Sala Bingo dal 2001 al 2004”, ha poi costituito una Srl assieme al prestanome. Quest’ultimo “era divenuto titolare dell’intero capitale sociale nel 2008. Secondo il Tribunale, le videoriprese e le intercettazioni dimostrano chiaramente che si tratta di interposizione fittizia. Dagli elementi indiziari, secondo il Tribunale, emerge che l’indagato non solo era solito prelevare denaro dalle casse della Sala Bingo, ma permetteva anche a terzi di fare lo stesso, senza che (il prestanome) come emerge da una conversazione con la moglie, potesse opporsi”. Inoltre, alcuni collaboratori “hanno attestato che la Sala Bingo era per metà (dell’imputato) e per metà del socio occulto Giovanni Tegano. Tale riconducibilità della società al clan spiega, secondo il Tribunale, la vicenda di (un altro imprenditore) che aveva incontrato molte difficoltà nell’aprire un’altra Sala Bingo, perché nella zona doveva garantirsi il monopolio di quella appartenente ai Tegano”. rg/AGIMEG