Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello proposto dai concessionari per la riforma della sentenza del Tar Lazio che aveva ritenuto legittima la nota ADM del 15.01.2015 che applicava la Legge di Stabilità e redistribuiva onere di pagamento di 500 milioni sulla filiera degli apparecchi.
Secondo i giudici amministrativi sulla base della ctu la quota per singolo concessionario è proporzionata ai ricavi e compensi e ciò anche in considerazione che si è trattato di una misura una tantum.
Ecco le conclusioni del Consiglio di Stato
1. La questione all’esame del Collegio attiene alla legittimità dei provvedimenti dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli con i quali, in attuazione dall’art. 1, comma 649, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, così come modificato dai commi 920 e 921 dell’art. 1 della l. 28 dicembre 2015 n.208, è stato chiesto ai concessionari e agli altri operatori della filiera che operano nell’ambito delle reti di raccolta del gioco per conto dello Stato, ai sensi dell’art. 110, comma 6, del regio-decreto 18 giugno 1931, n. 773, di versare la somma di 500 milioni di euro nel rispetto delle condizioni previste dalla suddetta normativa.
2. L’appello non è fondato.
3. In via preliminare occorre ricostruire il quadro normativo rilevante alla luce degli orientamenti giurisprudenziali che si sono formati in materia.
3.1. Nell’ordinamento nazionale i giochi e le scommesse (d’ora innanzi, per brevità, solo giochi) sono distinti in tre categorie (si riprende la ricostruzione già effettuata dal Cons. Stato, sez. IV, 31 gennaio 2023, n. 1071.)
La prima categoria è costituita dai giochi vietati dall’ordinamento.
Vi rientrano sia i giochi penalmente sanzionati che sono i giochi d’azzardo nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria (art. 721 cod. pen.), sia i giochi vietati dall’autorità di pubblica sicurezza per ragioni di natura pubblica.
Il contratto è normalmente considerato avente causa illecita per contrarietà al buon costume, con conseguente irripetibilità, per finalità sanzionatorie, delle prestazioni erogate (art. 2035 cod. civ.).
La seconda categoria è costituita dai giochi leciti costituiti dalle competizioni sportive e dalle lotterie autorizzate (art. 1935 cod. civ.), nonché dagli altri giochi ammessi dalla legislazione speciale di settore.
Il contratto è un contratto aleatorio per natura, in quanto, avendo riguardo al momento genetico, deve essere oggettivamente incerta ex ante l’incidenza sulle prestazioni, nella fase attuativa del rapporto contrattuale, dell’evento futuro.
La terza categoria è costituita dai giochi non proibiti ma tollerati. L’attività di gioco in questo caso è fonte di una obbligazione naturale, con conseguente rilevanza giuridica limitata all’impossibilità di ripetizione di quanto corrisposto (art. 1933 cod. civ.).
I giochi possono avere natura “privata” ovvero natura “pubblica” quando coinvolgono un numero rilevante di soggetti.
In quest’ultimo caso, l’esigenza di assicurare la tutela dell’interesse pubblico alla sicurezza pubblica e la tutela dei consumatori giustifica, per taluni giochi, una organizzazione amministrativa degli stessi.
Tale organizzazione avviene, normalmente, mediante due diverse modalità organizzative.
La prima modalità è caratterizza dalla previsione di una riserva di attività in capo all’amministrazione statale, con possibilità di assegnare la gestione dell’attività stessa ai concessionari. In particolare, l’art. 1 del decreto legislativo 14 aprile 1948, n. 496 (Disciplina delle attività di gioco) dispone che «l’organizzazione e l’esercizio di giuochi di abilità e di concorsi pronostici, per i quali si corrisponda una ricompensa di qualsiasi natura e per la cui partecipazione sia richiesto il pagamento di una posta in denaro, sono riservati allo Stato».
Ai sensi dell’art. 2, del suddetto decreto legislativo: “L’organizzazione e l’esercizio di giuochi di abilità e di concorsi pronostici, per i quali si corrisponda una ricompensa di qualsiasi natura e per la cui partecipazione sia richiesto il pagamento di una posta in denaro, sono riservati allo Stato” (articolo 1); peraltro “L’organizzazione e l’esercizio delle attività di cui al precedente articolo sono affidate al Ministero delle finanze il quale può effettuarne la gestione o direttamente, o per mezzo di persone fisiche o giuridiche, che diano adeguata garanzia di idoneità. In questo secondo caso, la misura dell’aggio spettante ai gestori e le altre modalità della gestione saranno stabilite in speciali convenzioni…”.
La titolarità dei poteri pubblici, per ragioni di unificazione delle competenze, è stata attribuita all’Agenzia dei monopoli di Stato (art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2002).
I concessionari, che si limitano ad esercitare l’attività amministrativa di cui l’amministrazione pubblica rimane titolare, stipulano contratti di gioco con i singoli giocatori.
In questa attività si avvalgono dell’attività di altri soggetti che compongono la filiera (ad esempio, ricevitorie) e che costituiscono, in ambito negoziale, loro ausiliari ai sensi dell’art. 1228, cod. civ.
La seconda modalità è costituita dalla possibilità di svolgimento diretto da parte di soggetti privati dell’attività di gioco mediante il rilascio di una autorizzazione con funzione di controllo.
3.2. Nel caso in esame vengono in rilievo gli apparecchi da divertimento e intrattenimento idonei per il gioco lecito di cui all’articolo 110, comma 6, del regio decreto del 18 giugno 1931, n. 773.
Tale apparecchi sono di due tipi: vi sono anzitutto gli apparecchi “dotati di attestato di conformità alle disposizioni vigenti rilasciato dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato e obbligatoriamente collegati alla rete telematica”, i quali “si attivano con l’introduzione di moneta metallica ovvero con appositi strumenti di pagamento elettronico” e presentano “insieme con l’elemento aleatorio … anche elementi di abilità, che consentono al giocatore la possibilità di scegliere, all’avvio o nel corso della partita, la propria strategia, selezionando appositamente le opzioni di gara ritenute più favorevoli tra quelle proposte dal gioco” .
Essi sono soggetti a limiti di valore stabiliti dalla legge nella giocata e nella vincita massime.
Tali apparecchi sono previsti dall’art. 110, comma 6 lettera a), del citato Regio Decreto, e sono denominati “amusement with prize”, in acronimo “AWP”, secondo la definizione ufficiale contenuta nel “nomenclatore unico”, predisposto dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli come parte degli atti della gara di scelta dei concessionari di cui si dirà; vi sono poi gli apparecchi “facenti parte della rete telematica… che si attivano esclusivamente in presenza di un collegamento ad un sistema di elaborazione della rete stessa”, che, in linea di principio, consentono giocate e vincite di importo maggiore, stabilite con decreto ministeriale; questi apparecchi sono previsti dall’art. 110, comma 6 lettera b), del predetto testo unico, e sono denominati, sempre in base al predetto nomenclatore unico “video lottery terminal”, in acronimo “VLT”.
In relazione alla gestione di tutti gli apparecchi indicati esiste, inoltre, una disposizione comune, l’art. 14 bis, comma 4, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n.640, che ne prevede l’obbligatorio collegamento ad una rete telematica dell’amministrazione appositamente creata, con evidente scopo di controllo; lo stesso comma 4 prevede poi che “Entro il 30 giugno 2004 sono individuati, con procedure ad evidenza pubblica nel rispetto della normativa nazionale e comunitaria, uno o più concessionari” della rete stessa, i quali gestiscono la rete e gli apparecchi di loro pertinenza ad essa collegati, ricavandone un compenso, determinato come subito si esporrà.
In concreto, la gestione degli apparecchi da gioco in esame è organizzata come segue.
Gli apparecchi AWP sono installati presso esercizi commerciali, tipicamente bar e tabaccherie, detti “esercenti” in base al nomenclatore unico, e sono generalmente acquistati o noleggiati da operatori terzi, che, sempre in base al nomenclatore unico, sono detti “gestori” e si occupano anche dell’installazione e della manutenzione.
Gli apparecchi VLT sono, invece, gestiti direttamente dal concessionario, che li mette a disposizione dell’esercente, di solito una sala giochi, senza in questo caso l’intermediazione del gestore.
I rapporti fra il concessionario e l’Agenzia sono disciplinati dalla convenzione di concessione approvata contestualmente agli atti di gara, sottoscritta dal concessionario;
i rapporti tra concessionari, gestori ed esercenti sono regolamentati invece da contratti di diritto privato.
3.3. Per quanto attiene al compenso del concessionario il decreto ministeriale 12 marzo 2004, n. 86 prevede che: “La ripartizione percentuale delle somme giocate per ciascun apparecchio o videoterminale di gioco, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 110, comma 6, del T.U.L.P.S. e dell’articolo 39, comma 13, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, è la seguente: a) alle vincite è destinata una percentuale non inferiore al 75 per cento, relativamente a ciascun ciclo complessivo di partite; b) al prelievo erariale unico è destinata una percentuale del 13,5 per cento del costo di ciascuna partita; c) alla remunerazione delle attività connesse alla gestione degli apparecchi e videoterminali di gioco e delle funzioni di cui all’articolo 2, comprese le spese di gestione direttamente sostenute da AAMS, è destinata una percentuale non superiore all’11,5 per cento, relativamente a ciascun ciclo complessivo di partite”.
Nella specie, il bando di gara al § II 1.5 prevede quanto segue: “Per effetto delle attività affidate in concessione il concessionario ha l’obbligo di mettere a disposizione dell’erario e di AAMS le somme previste a titolo di PREU, di canone di concessione e di deposito cauzionale in quota percentuale rispetto alla raccolta di gioco. Al concessionario è riconosciuto un compenso quale differenza tra l’importo derivante dalla raccolta di gioco e le predette somme nonché le vincite da erogare, calcolate sulla base dei limiti minimi previsti dalla normativa vigente, e le quote spettanti a soggetti terzi incaricati della raccolta di gioco”.
In concreto, prima del contestato decreto 15 gennaio 2015, n. 388, il calcolo avveniva così come segue.
Dal totale complessivo delle giocate, si andavano a sottrarre: a) le vincite da pagare ai giocatori, non inferiori a una data percentuale delle giocate, stabilita dall’amministrazione; b) gli importi dovuti agli altri operatori della filiera, ovvero ai gestori e agli esercenti di cui si è detto, sulla base dei contratti di diritto privato con gli stessi stipulati dal concessionario; c) il canone di concessione dovuto all’Agenzia; d) le imposte, rappresentate in questo caso da un’imposta sostitutiva, pari ad una certa percentuale delle vincite, prevista dal menzionato art. 14 bis, del d.P.R. 640/1972, e denominata “prelievo erariale unico” ovvero PREU.
Il risultato costituiva il ricavo netto del concessionario, dal quale questi, per determinare il proprio utile, doveva ancora sottrarre i costi aziendali.
Il rapporto tra lo Stato e i concessionari è, infatti, regolato da apposite convenzioni, mentre quelli tra concessionari e gli altri operatori della filiera (gestori ed esercenti), come anticipato, da contratti di diritto privato. Il compenso spettante ai concessionari è calcolato in via residuale, in quanto, come risulta da quanto sopra riportato, è pari all’importo delle giocate dedotti sia le vincite pagate ai giocatori, sia gli importi dovuti agli altri operatori della filiera, gestori ed esercenti, sulla base di quanto previsto dai contratti di diritto privato stipulati, sia gli importi dovuti all’Agenzia delle dogane e dei monopoli a titolo di canone di concessione, sia quanto spettante all’erario a titolo di prelievo unico (PREU), pari al 13 per cento delle giocate con AWP ed al 5 per cento delle giocate con VLT.
I contenuti della convenzione sono stati adeguati nel corso della sua durata, in base all’art. 1, commi 77-83, della l. 13 dicembre 2010 n.220.
3.4. Su tale regolamentazione è intervenuta quella che rileva in questa sede.
L’articolo 14 della legge dell’11 marzo 2014, n. 23 – Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita (GURI n. 59, del 12 marzo 2014), nella versione applicabile alle controversie di cui ai procedimenti principali (in prosieguo: la «legge dell’11 marzo 2014, n. 23»), dispone quanto segue:
«1. Il Governo è delegato ad attuare, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, il riordino delle disposizioni vigenti in materia di giochi pubblici, riordinando tutte le norme in vigore in un codice delle disposizioni sui giochi, fermo restando il modello organizzativo fondato sul regime concessorio e autorizzatorio, in quanto indispensabile per la tutela della fede, dell’ordine e della sicurezza pubblici, per il contemperamento degli interessi erariali con quelli locali e con quelli generali in materia di salute pubblica, per la prevenzione del riciclaggio dei proventi di attività criminose, nonché per garantire il regolare afflusso del prelievo tributario gravante sui giochi.
2. Il riordino di cui al comma 1 è effettuato nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
(…)
g) revisione degli aggi e compensi spettanti ai concessionari e agli altri operatori secondo un criterio di progressività legata ai volumi di raccolta delle giocate;
(…)».
L’articolo 1, comma 649, della legge del 23 dicembre 2014, n. 190 – Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (supplemento ordinario alla GURI n. 300, del 29 dicembre 2014) (in prosieguo: la «legge di stabilità per il 2015»), ha imposto un prelievo annuale di EUR 500 milioni sulle risorse statali messe a disposizione, a titolo di compenso, dei concessionari e degli altri operatori incaricati della gestione di giochi e della raccolta delle puntate per conto dello Stato.
Tale disposizione è formulata nei seguenti termini:
«A fini di concorso al miglioramento degli obiettivi di finanza pubblica e in anticipazione del più organico riordino della misura degli aggi e dei compensi spettanti ai concessionari e agli altri operatori di filiera nell’ambito delle reti di raccolta del gioco per conto dello Stato, in attuazione dell’articolo 14, comma 2, lettera g), della legge 11 marzo 2014, n. 23, è stabilita in 500 milioni di euro su base annua la riduzione, a decorrere dall’anno 2015, delle risorse statali a disposizione, a titolo di compenso, dei concessionari e dei soggetti che, secondo le rispettive competenze, operano nella gestione e raccolta del gioco praticato mediante apparecchi di cui all’articolo 110, comma 6, del testo unico di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773. Conseguentemente, dal 1° gennaio 2015:
a) ai concessionari è versato dagli operatori di filiera l’intero ammontare della raccolta del gioco praticato mediante i predetti apparecchi, al netto delle vincite pagate. I concessionari comunicano all'[ADM] i nominativi degli operatori di filiera che non effettuano tale versamento, anche ai fini dell’eventuale successiva denuncia all’autorità giudiziaria competente;
b) i concessionari, nell’esercizio delle funzioni pubbliche loro attribuite, in aggiunta a quanto versato allo Stato ordinariamente, a titolo di imposte ed altri oneri dovuti a legislazione vigente e sulla base delle convenzioni di concessione, versano altresì annualmente la somma di 500 milioni di euro, entro i mesi di aprile e di ottobre di ogni anno, ciascuno in quota proporzionale al numero di apparecchi ad essi riferibili alla data del 31 dicembre 2014. Con provvedimento del direttore dell'[ADM], adottato entro il 15 gennaio 2015, previa ricognizione, sono stabiliti il numero degli apparecchi di cui all’articolo 110, comma 6, lettere a) e b), del testo unico di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, riferibili a ciascun concessionario, nonché le modalità di effettuazione del versamento. Con analogo provvedimento si provvede, a decorrere dall’anno 2016, previa periodica ricognizione, all’eventuale modificazione del predetto numero di apparecchi;
c) i concessionari, nell’esercizio delle funzioni pubbliche loro attribuite, ripartiscono con gli altri operatori di filiera le somme residue, disponibili per aggi e compensi, rinegoziando i relativi contratti e versando gli aggi e compensi dovuti esclusivamente a fronte della sottoscrizione dei contratti rinegoziati».
Con il decreto del 15 gennaio 2015, n. 388, prot. n. 4076/RU, del Direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, è stato stimato il numero di apparecchi riferibili a ciascun concessionario alla data del 31 dicembre 2014 e sono state liquidate le somme dovute di conseguenza, attraverso una ripartizione dell’onere del prelievo in misura proporzionale al numero di apparecchi riferibili a ciascun concessionario.
Ai sensi dell’articolo 3 di tale decreto, ciascun concessionario doveva versare il 40% della propria quota entro il 30 aprile 2015, e il 60% entro il 31 ottobre 2015.
L’articolo 1, commi 920 e 921, della legge del 28 dicembre 2015, n. 208 – Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato- (legge di stabilità 2016) (supplemento ordinario alla GURI n. 302, del 30 dicembre 2015) (in prosieguo: la «legge di stabilità per il 2016»), abrogando l’articolo 1, comma 649, della legge di stabilità per il 2015, ha limitato la portata di tale disposizione, e dunque il prelievo, all’anno 2015 (in prosieguo: il «prelievo del 2015»).
Tale disposizione, in particolare, dispone che:
«920. Il comma 649 dell’articolo 1 della [legge di stabilità per il 2015] è abrogato».
«921. Il comma 649 dell’articolo 1 della [legge di stabilità per il 2015] si interpreta nel senso che la riduzione su base annua delle risorse statali a disposizione, a titolo di compenso, dei concessionari e dei soggetti che, secondo le rispettive competenze, operano nella gestione e raccolta del gioco praticato mediante apparecchi di cui all’articolo 110, comma 6, del testo unico di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, si applica a ciascun operatore della filiera in misura proporzionale alla sua partecipazione alla distribuzione del compenso, sulla base dei relativi accordi contrattuali, tenuto conto della loro durata nell’anno 2015».
Per effetto di quest’ultima disposizione, il prelievo forzoso in favore dell’Amministrazione per l’anno 2015 rimane identico nell’an e nel quantum, essendo rimasta immutata questa provvista straordinaria in favore dell’erario.
In particolare, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 125 del 2018 ha affermato, con argomentazioni che il Collegio condivide, quanto segue.
Con la disposizione in esame, il legislatore ha previsto che l’onere del prelievo forzoso non è più a carico solo dei concessionari, ma grava su tutti gli operatori della filiera del gioco lecito e quindi anche su esercenti e gestori, e che il relativo criterio di riparto è basato non solo sul numero degli apparecchi riferibili ai concessionari, ma anche sulla partecipazione alla distribuzione del compenso cui ha diritto ciascun operatore della filiera secondo i relativi accordi contrattuali.
Il legislatore ha, quindi, con la riforma in esame, in primo luogo, abdicato all’originaria volontà di assegnare al prelievo forzoso a carico dei concessionari la stabilità di un istituto a regime, valido anche per gli anni successivi al 2015, optando invece, a partire dal 1° gennaio 2016, per un inasprimento dell’imposizione fiscale costituita dal PREU sulle giocate al fine di compensare il mancato introito del prelievo forzoso per gli anni successivi al 2015.
Ha, inoltre, modificato profondamente il contenuto precettivo della originaria disposizione introdotta dalla legge di stabilità del 2015.
Per effetto del novum normativo, il prelievo forzoso in esame non è più solo a carico dei concessionari, ma «si applica a ciascun operatore della filiera», e per essi il criterio di riparto dell’onere economico aggiuntivo è fissato direttamente dalla legge (e non più affidato ad un’incerta rinegoziazione degli accordi contrattuali) in misura proporzionale alla partecipazione di ciascun operatore della filiera diverso dai concessionari (ossia esercenti e gestori) alla distribuzione del compenso.
In altri termini, per effetto dell’entrata in vigore delle disposizioni della legge di stabilità per il 2016, sopra richiamate, non ricorre più la necessità di disciplinare la traslazione dell’onere economico dai concessionari ai gestori e agli esercenti, perché su di essi posto direttamente dalla legge in misura precisa, in quanto determinata sulla base di un dato fattuale “storico” (rilevano, infatti, in chiave retrospettiva, i compensi spettanti per l’attività già svolta dagli operatori della filiera nel corso del 2015 e previsti dagli accordi contrattuali).
Ne discende che, per effetto della modifica legislativa in esame, è stata profondamente modificata in melius, sia per i concessionari, inizialmente obbligati (dalla originaria disposizione di cui al comma 649, dell’articolo 1 della legge di stabilità per il 2015) essi soli per l’intero ed ora (in forza della disposizione sopravvenuta) obbligati unitamente a tutti gli altri operatori della filiera, tenuti anch’essi in misura proporzionale ai compensi contrattuali del 2015; sia per gestori ed esercenti, inizialmente tenuti a riversare l’intero ricavato delle giocate, senza possibilità di trattenere il compenso loro spettante, ed ora obbligati anch’essi, ma solo in misura proporzionale ai compensi contrattuali del 2015.
In definitiva, la legge finanziaria per il 2016 ha abrogato la norma che ha previsto il prelievo forzoso in quanto si trattava di una disposizione a regime e al contempo, per l’unico anno in cui ha avuto efficacia, l’ha interpretata in via autentica introducendo anche norme innovative.
3.5. Occorre da subito rilevare che le obbligazioni del concessionario e degli operatori della filiera, a seguito della riforma del 2016, sono speciali.
Ai sensi dell’art. 1292, c.c., le obbligazioni solidali ricorrono quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento da parte di una libera gli altri.
L’art. 1294 c.c. dispone che i “‘condebitori sono tenuti in solido, se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente”.
L’art. 1298, c.c., prevede che “l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori, salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuni di essi”.
Sul piano concettuale, le obbligazioni solidali presuppongono, secondo la ricostruzione preferibile, una pluralità di rapporti obbligatori e l’adempimento da parte di uno dei debitori estingue, all’esterno, l’obbligazione nei confronti del creditore. Il codice civile ha previsto una presunzione di solidarietà che ricorre quando vi sono più debitori che sono obbligati per la medesima prestazione e si discute se occorra o meno la sussistenza anche della cd. eadem causa obbligandi. Quando non ricorrono queste condizioni l’obbligazione è parziaria e ciascuno dei debitori è tenuto nei limiti della sua quota (art. 1314 cod. civ.).
Nella specie, il tratto di specialità dell’obbligazione pubblica in esame risiede nel fatto che, sia pure in prima battuta e facendo salvo il diritto di regresso nei confronti degli altri soggetti della filiera secondo le proporzioni sopra indicate, nei confronti dell’Erario l’obbligo di versamento della riduzione del compenso annuo dovuto agli operatori del gioco lecito, per evidenti ragioni di buon andamento e di tutela dell’interesse fiscale, è rimasto interamente a carico dei concessionari, uniche controparti dell’amministrazione finanziaria, senza invece essere polverizzato in una miriade di rapporti con i singoli esercenti operanti nella filiera dei concessionari medesimi, con i quali i Monopoli non hanno alcun rapporto ( cfr. Consiglio di Stato, sez. VII, 9 agosto 2022, n. 7056).
Come più volte rilevato, una volta effettuato tale adempimento, è oggi possibile esercitare un diritto di rivalsa in ragione della sussistenza di un obbligo di ripartizione interna del peso economico tra i diversi operatori della filiera.
Il legislatore, con la legge di stabilità per il 2016, ha voluto introdurre un criterio legale oggettivo che costituisce per le parti dei rapporti dei contratti in corso fonte di un obbligo legale che integra i contratti stessi. Mentre prima della suddetta riforma era dubbio se gli operatori della filiera fossero soggetti obbligati e quale fosse su di essi l’incidenza del peso economico del prelievo forzoso. Con la riforma non solo si è chiarito che anche gli operatori della filiera sono soggetti obbligati ma soprattutto si è previsto un obbligo chiaro di ripartizione interna del prelievo stesso.
E’ stato previsto, pertanto, un obbligo legale di corrispondere, in misura proporzionale, la quota che grava sugli altri operatori della filiera, che consente ai concessionari di esercitare il proprio diritto di credito, chiedendo l’adempimento di tale obbligazione mediante la proposizione, in sede civile, della relativa azione, con possibilità anche di agire in via esecutiva.
Nell’eventuale fase di riscossione del debito residuo da parte dello Stato si terrà conto, anche alla luce di principio di buona fede e correttezza, anche delle possibili difficoltà concrete che i concessionari possono avere incontrato sia nel recupero delle somme già versate sia nel pagamento della quota che gli operatori della filiera non hanno ancora versato.
4. Con un primo mezzo di gravame la società appellante deduce: “Errores in iudicando, anche per infrapetizione, in relazione alle censure proposte con il ricorso introduttivo. Illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 649 della legge 23 dicembre 2014, n. 190 per violazione degli artt. 3, 41 e 42 Cost.”
Con un secondo mezzo di gravame la società appellante deduce: “Errores in iudicando, anche per infrapetizione, in relazione alle censure proposte con il ricorso introduttivo. Illegittimità derivata dalla violazione delle norme di diritto europeo vigenti in tema di massimo accesso al mercato e abbattimento degli ostacoli al libero sviluppo delle prestazioni di beni e servizi nonché di ingiustificata limitazione della concorrenza e dell’attività di impresa. Violazione delle regole e dei principi sanciti dalla direttiva 23/2014 UE”.
Con un terzo mezzo di gravame la società appellante deduce: “Errores in iudicando, anche per infrapetizione, in relazione alle censure proposte con il ricorso introduttivo. Illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 649 della legge 23 dicembre 2014, n. 190 per violazione dell’art. 117, primo comma Cost. in relazione all’art. 1, Protocollo n. 1 CEDU”.
4.1. I motivi di appello sono tra loro connessi e possono essere esposti ed esaminati congiuntamente.
Ad avviso della società appellante, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, il comma 649, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, così come modificato dai commi 920 e 921 dell’art. 1 della l. 28 dicembre 2015 n.208, andrebbe qualificato quale legge-provvedimento.
Questa conclusione viene argomentata sulla base del contenuto particolare e concreto della suindicata normativa, tale da renderla assimilabile, appunto, ad un provvedimento amministrativo.
Dalla premessa secondo cui quella in esame sarebbe da qualificare quale legge provvedimento, la società appellante fa discendere la necessità di sottoporla ad un più rigoroso vaglio di legittimità, da compiere, tenendo conto di un attento bilanciamento fra tutti gli interessi in gioco, alla luce dei principi di ragionevolezza, uguaglianza, non arbitrarietà e rispetto del legittimo affidamento (arg. da Corte Cost. n.85/2013).
Rileva, in particolare, la società appellante che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado, l’illegittimità del prelievo forzoso disposto dal comma 649, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, non sarebbe superato dalla modifica introdotta dai commi 920 e 921 dell’art. 1 della l. 28 dicembre 2015 n.208, in quanto la sola limitazione temporale dell’ambito di operatività della norma, pur trasformando il prelievo in una misura qualificabile come “una tantum”, non ne avrebbe eliminato i seguenti effetti:
i) irragionevolezza della scelta di ancorare il parametro di calcolo del prelievo forzoso, espressamente previsto come “riduzione dei compensi” destinati alla filiera del gioco lecito, al numero degli apparecchi e non alla loro effettiva redditività;
ii) conseguente disparità di trattamento determinata dalla previsione di una riduzione di compensi non commisurata al guadagno effettivo dei singoli operatori e, comunque, destinata ad incidere su un solo comparto del gioco (quello praticato mediante apparecchi);
iii) violazione del principio dell’affidamento del concessionario-imprenditore (come tutelato dall’art. 41 Cost.), in quanto quest’ultimo sarebbe gravato dall’obbligo di un pagamento stabilito in misura fissa e non graduabile, tale da compromettere la stabilità dell’equilibrio sinallagmatico del rapporto convenzionale.
L’opposta conclusione, condivisa dalla sentenza impugnata, trarrebbe le mosse, nella prospettiva della parte appellante, dall’equivoco in cui sarebbe incorsa anche la stessa Corte costituzionale nella sua pronuncia di restituzione degli atti al giudice di primo grado, laddove essa ha osservato che i concessionari “inizialmente obbligati (dalla disposizione censurata) essi soli per l’intero” sarebbero stati in seguito, “in forza della disposizione sopravvenuta, obbligati unitamente a tutti gli altri operatori della filiera, tenuti anch’essi in misura proporzionale ai compensi contrattuali del 2015”.
Ad avviso della parte appellante, infatti, anche la norma introdotta nel 2015 disporrebbe parimenti una misura ablativa, ingiustificata ed ingiustificabile, in quanto posta a carico di un solo comparto del gioco pubblico, non commisurata ai compensi su cui è destinata ad incidere, bensì rispondente alle sole esigenze di cassa (500 milioni di euro) sorte in sede di applicazione della legge di bilancio per il 2015.
Essa, inoltre, inciderebbe su rapporti di durata già consolidati e sugli effetti di scelte imprenditoriali già compiute in conformità a previsioni economiche effettuate alla luce della disciplina previgente e delle convenzioni già stipulate.
Dalle riportate argomentazioni la società appellante ricava l’ulteriore conclusione per cui l’originaria norma, pur come integrata dalla successiva riforma del 2015, anche se tecnicamente intesa ad operare solo ex nunc, agirebbe nella sostanza con effetti retroattivi.
4.2. Muovendo da quest’ultimo assunto, osserva ulteriormente la parte appellante che, in conformità alla consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, una disciplina retroattiva come quale in esame incontrerebbe i “limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (arg., ex multis, da Corte costituzionale n. 103 del 2013).
In particolare, assume la società appellante che una disposizione legislativa, che, come quella in esame, incida su rapporti di durata, sarebbe costituzionalmente ammissibile solo se, ed in quanto, fosse conforme al “il principio del legittimo affidamento nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale dello Stato di diritto e non può essere leso da disposizioni retroattive, che trasmodino in regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori” (a sostegno dell’assunto sono richiamate le decisioni della Corte costituzionale n. 236 del 2009; n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 24 del 2009).
In tale ordine di idee, sarebbe, dunque, in contrasto con i principi costituzionali suindicati un intervento normativo che, riducendo retroattivamente i compensi riconosciuti ai concessionari del solo comparto degli apparecchi, incida irrazionalmente ed in modo discriminatorio su situazioni sostanziali già consolidate.
A sostegno di questa conclusione la società appellante osserva ulteriormente che, implicando, in via autoritativa, una modifica in pejus delle condizioni contrattuali (in particolare, delle condizioni relative alla rimuneratività del servizio reso), l’intervento normativo in esame lederebbe apertamente non solo esigenze di certezza giuridica, che riguardano tutti i soggetti che si trovino in una determinata situazione sostanziale, ma anche i diritti nascenti da contratti legittimamente stipulati.
Tale rilievo sarebbe ulteriormente rafforzato dalla considerazione per cui l’intervento legislativo in esame sarebbe stato “improvviso ed imprevedibile”, in quanto:
i) è stato approvato a poco più di un anno di distanza dalla sottoscrizione delle nuove convenzioni di concessione e dei contratti con la filiera;
ii) ha introdotto condizioni contrastanti, non solo con la previgente normativa, ma anche con quanto contenuto nei predetti atti convenzionali;
iii) ha riguardato il solo comparto del gioco tramite apparecchi ed ha “illogicamente” preteso di anticipare misure, che avrebbero dovuto essere contenute in un fantomatico “codice dei giochi”, mai varato.
Né, ad avviso della società appellante, potrebbe ricondursi la misura di prelievo in esame al “fisiologico rischio normativo di impresa”, giacché la norma avrebbe drasticamente ridotto, peraltro in misura fissa e non variabile, i compensi riferibili alla filiera per l’anno 2014, vanificando l’iniziativa economica intrapresa e gli investimenti sostenuti.
4.3. La sentenza impugnata, secondo l’appellante, avrebbe, inoltre, lasciato privi di risposta anche ulteriori profili di incostituzionalità attinenti ai criteri di determinazione del prelievo forzoso in analisi, che permarrebbero anche dopo l’introduzione della novella legislativa.
In tale prospettiva, la società appellante deduce l’evidente irrazionalità della scelta legislativa di una riduzione di compensi:
i) prevista in misura fissa (500 milioni di euro) e non già proporzionale al dato reddituale;
ii) commisurata al numero degli apparecchi in dotazione alla data stabilita e non ad un dato di flusso (unico fattore indicativo della rimuneratività della raccolta);
iii) ripartita all’interno della filiera, senza tuttavia che sia stato previsto alcun meccanismo che la renda effettivamente esigibile nei riguardi dei soggetti che non sono legati all’Amministrazione da un rapporto concessorio.
Tali incongruenze, ad avviso della parte appellante, non soltanto renderebbero la misura palesemente inidonea allo scopo per il quale è stata prevista, ma risulterebbero altresì foriere, all’interno del mercato di riferimento, di effetti inevitabilmente distorsivi e destabilizzanti, atteso che una riduzione di compensi non parametrata al guadagno effettivo (oltre a contraddire la ratio ispiratrice della misura) è necessariamente destinata ad alterare la concorrenza, sia tra categorie omogenee, sia tra concessionari e filiera del gioco lecito tramite apparecchi.
4.4. A giudizio della società appellante, inoltre, il prelievo in esame, non solo contrasterebbe con il canone della ragionevolezza, inteso quale limite all’esercizio della discrezionalità del legislatore, ma violerebbe anche il principio di parità di trattamento (art. 3 Cost.).
In relazione alla violazione del parametro della ragionevolezza, la società appellante osserva che tale intervento legislativo è avvenuto in dichiarata anticipazione del più organico riordino della misura degli aggi e dei compensi spettanti ai concessionari e agli altri operatori di filiera, nell’ambito della rete di raccolta del gioco per conto dello Stato, in attuazione dell’art. 14, comma 2, lettera g), della legge 11 marzo 2014, n. 23 (Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita).
Nondimeno, argomenta la parte appellante, mentre tale disposizione della legge di delega (poi di fatto non esercitata) prevede che la revisione degli aggi e compensi spettanti ai concessionari e agli altri operatori deve avvenire «secondo un criterio di progressività legata ai volumi di raccolta delle giocate», la norma censurata ha, invece, stabilito la riduzione in «quota proporzionale al numero di apparecchi […] riferibili [ai concessionari] alla data del 31 dicembre 2014», ancorando, pertanto, il prelievo ad un dato fisso, qual è il numero degli apparecchi riferibili al concessionario al 31 dicembre 2014, o in sede di ricognizione successiva, e non, piuttosto, ad un dato di flusso quale i volumi di raccolta delle giocate.
L’irragionevolezza discenderebbe, in tale prospettiva, dal fatto che la capacità di reddito del concessionario (e della relativa filiera) è misurata in base all’entità complessiva degli importi incassati piuttosto che dal numero degli apparecchi riferibili a ciascun soggetto.
4.5. Il prelievo in esame contrasterebbe altresì con il principio di uguaglianza in quanto, posto che il riferimento al numero degli apparecchi non è indicativo del reddito conseguito da ciascun concessionario, la ripartizione della riduzione dei compensi potrebbe andare a beneficio degli operatori i cui apparecchi registrano un maggior volume di giocate e a detrimento degli operatori che ne registrano di meno.
Sarebbe, pertanto, illogica la presunzione secondo la quale ciascun apparecchio abbia la stessa potenzialità di reddito, là dove quest’ultima dipende, invece, da una molteplicità di fattori, quali la differenza tra AWP e VLT, nonché la collocazione territoriale degli apparecchi.
4.6. La normativa in esame, inoltre, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 41 della Costituzione, che sancisce il principio di libertà dell’iniziativa economica privata.
Al riguardo, l’appellante rileva che quando, come nel caso in esame, vengono in rilievo soggetti privati, i quali, nell’intraprendere un’attività di impresa, sostengono consistenti investimenti, la legittima aspettativa ad una certa stabilità nel tempo del rapporto concessorio gode di una particolare tutela costituzionale per effetto del citato art. 41, Cost.
In particolare, nella fattispecie in esame, il meccanismo, imposto dal legislatore, di inversione del flusso dei pagamenti aumenterebbe il rischio, posto a carico dei concessionari, del mancato adempimento delle obbligazioni gravanti sugli altri operatori della filiera, senza che quest’ultimo inadempimento faccia venire meno l’obbligo dei concessionari medesimi di versare allo Stato l’importo concernente l’intera filiera.
4.7. Inoltre, la norma censurata lederebbe anche la libertà contrattuale dei gestori, in quanto l’imposizione di una negoziazione con gli altri operatori della filiera sarebbe incompatibile con l’incomprimibile autonomia delle parti di pervenire solo eventualmente ad un nuovo e diverso accordo negoziale.
Queste distorsioni delle dinamiche concorrenziali sarebbero tali, nell’ottica in esame, da impattare sensibilmente sulla fisiologica competitività di un mercato, che il legislatore ha inteso configurare quale sistema aperto ad una pluralità di concessioni e di operatori di filiera, e si rifletterebbero anche sul terreno contiguo del rispetto dovuto alla tutela del legittimo affidamento riposto nella sicurezza dei rapporti giuridici, impattando sull’esercizio di attività imprenditoriali espressione della libertà di iniziativa economica (artt. 41 e 117, Cost.).
Secondo l’appellante, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, una misura ispirata esclusivamente da ragioni di finanza pubblica, come quella in esame, avrebbe dovuto implicare l’applicazione del prelievo non in misura fissa e forfettaria, ma in base a criteri gradualisti-ispirati ad intrinseca ragionevolezza e proporzionalità, quindi commisurati al volume effettivo delle giocate e non al dato anodino del numero degli apparecchi.
Tanto più ove si consideri che tale dato parametrico, risultando riferito alla data del 31 dicembre 2014, avrebbe comportato la sostanziale retroattività del meccanismo di applicazione del prelievo forzoso.
4.8. Tali rilievi critici permarrebbero, ad avviso della parte appellante, anche a seguito della riforma del 2015, sopra richiamata.
Secondo l’appellante, la portata di quest’ultima riforma non sarebbe in grado di superare i rilievi già sollevati in punto di incostituzionalità dell’art. 1, comma 649, della legge 190 del 2014, per contrasto con gli artt. 3 e 41 della Costituzione, nonché per contrasto con gli obblighi derivanti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, a cui le leggi interne devono uniformarsi, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.
In relazione alla asserita violazione degli artt. 3 e 41, Cost., assume l’appellante che, anche dopo la novella, il riparto dei 500 milioni, calcolato sulla quota di apparecchi riferibili a ciascun concessionario alla data del dicembre 2014, sarebbe rimasto quello previsto dal decreto dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli impugnato in primo grado.
Alle medesime conclusioni occorrerebbe pervenire, nella prospettiva in esame, anche con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 3, Cost., atteso che la misura riduttiva in esame continuerebbe a riguardare il solo comparto di gioco tramite apparecchi e non già anche altri segmenti di gioco.
In particolare, emergerebbe, in relazione al profilo in esame, l’intrinseca irrazionalità e l’iniquità di un prelievo, che, contraddicendo platealmente il disegno organico prefigurato dalla legge-delega varata poco tempo prima (contenente l’impegno ad attuare una revisione a tutto campo del sistema degli aggi e dei compensi con riferimento all’intero settore dei giochi pubblici), ha imposto il relativo onere economico a carico di un’unica categoria di operatori (peraltro già oggetto di numerosi interventi impattanti sulla redditività degli investimenti effettuati).
Di qui la permanenza, anche successivamente alla entrata in vigore del novum normativo, dell’alterazione delle dinamiche competitive sopra descritte.
4.9. Con riferimento, infine, alla violazione dei principi euro-unitari, la novella non avrebbe rimosso le ragioni di insanabile contrasto con il principio di libertà di stabilimento e, più in generale, con i principi regolatori della concorrenza, di libera iniziativa economica, di tutela della proprietà (e segnatamente artt. a 101 a 107 TFUE), di legittimo affidamento.
Sotto tale ultimo profilo, si assume che la norma censurata opererebbe retroattivamente su diritti già acquisiti e su rapporti economici esauriti, posto che il prelievo attuato ed imposto nel 2015 colpirebbe i ricavi maturati nel 2014, in violazione del contenuto economico della convenzione di concessione e al solo fine di soddisfare esigenze “di cassa” e non, invece, quelle di tutela dell’ordine pubblico e/o del contrasto alla criminalità organizzata, e/o per il controllo del gioco (cfr. Corte di giustizia 20.12.2017, nel caso Global Starnet).
4.10. Da quanto premesso discenderebbe la violazione anche dell’art. 1 del Protocollo aggiuntivo n. 1 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo cui “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” e “nessuno può esser privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.
Quest’ultimo assunto è, in particolare, argomentato sul rilievo per cui, secondo la giurisprudenza costante della Corte europea dei diritti dell’uomo, anche i diritti di credito (quale quello ai compensi nelle concessioni pubbliche in esame) costituiscono “beni” protetti dall’art. 1 Protocollo n. 1 (arg., ex multis, da Corte Europea dei diritti dell’uomo M.C. e altri c. Italia, ric. N. 5376/11, 3 settembre 2013, § 77; Maurice c. Francia [GC], ric. N. 11810/03, § 63, CEDH 2005-IX ; Kopeclo.5 c. Slovacchia [GC], ric. N 44912/98, §§ 42-52, CEDH 2004-1X e Agrati e altri c. Italia,ricc. nn. 43549/08, 6107/09 e 5087/09, 7 giugno 2011, §§ 73-74).
Ciò in quanto la sottrazione ex lege, a danno dell’unico comparto del gioco tramite apparecchi, di una parte rilevantissima (per complessivi 500 milioni) dei crediti spettanti ai concessionari ed agli altri operatori della filiera, in base alle convenzioni stipulate con l’Agenzia delle dogane e dei monopoli ed ai contratti sottoscritti tra concessionari ed altri operatori, costituirebbe una non giustificata “ingerenza” nel diritto convenzionalmente protetto.
Tale ingerenza, in particolare, non troverebbe giustificazione in una finalità legittima (in quanto destinata ad incidere retroattivamente su rapporti contrattuali regolarmente stipulati ed operanti, sulla cui corretta esecuzione i privati hanno il legittimo affidamento di poter contare), e, in ogni caso, contrasterebbe con il principio di proporzionalità e con i principi generali del diritto internazionale, posto che non sarebbe dato di scorgere, nell’eventuale interesse dello Stato ad incassare la predetta somma, una giustificazione adeguata ad un intervento ablatorio, che va a sconvolgere un equilibrio contrattuale consolidato: tanto più se si tiene conto della palese discriminazione operata nei riguardi del solo comparto del gioco tramite apparecchi.
5. Il motivo, nelle sue varie articolazioni, non è fondato.
5.1. Ritiene il Collegio, contrariamente a quanto ritenuto dalla parte appellante nel primo motivo di appello, che la norma che ha disposto la misura di prelievo in esame non costituisce tecnicamente una legge provvedimento.
Con l’espressione legge-provvedimento si intende, infatti, ad avviso di un costante indirizzo dottrinale e giurisprudenziale, l’atto legislativo (quindi adottato con le forme e il procedimento tipico delle fonti normative primarie) che si contraddistingue però per il peculiare contenuto che incide «su un numero limitato di destinatari, attraendo nella sfera legislativa quanto normalmente affidato all’ autorità amministrativa
Si tratta, quindi, di atti formalmente legislativi e sostanzialmente amministrativi.
Sul piano dogmatico, la legge-provvedimento trova, quindi, il suo fondamento nella concezione della legge in senso formale (art. 70 e ss., Cost), in base alla quale la definizione dell’atto come legge non incontra alcun limite di contenuto al di fuori della Costituzione.
Ad avviso di tale consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale, peraltro il passaggio dall’atto amministrativo alla legge non compromette il diritto alla tutela giurisdizionale, atteso che il diritto di difesa non risulterà annullato, ma verrà a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale.
Ciò in quanto la legge-provvedimento si sostituisce o assorbe un atto amministrativo, che di essa diventa parte integrante, e in quanto tale è soggetta al controllo del solo giudice naturale previsto per le leggi e gli atti aventi forza di legge.
In tale ordine di idee, il passaggio dall’atto amministrativo alla legge implica un mutamento del regime di tutela giurisdizionale, che dal giudice comune (recte amministrativo) passa alla giustizia costituzionale, ma non determina, in quanto tale, una lesione del diritto di difesa.
Cionondimeno, secondo un altrettanto costante orientamento interpretativo, le leggi provvedimento, in quanto potenzialmente lesive del principio di uguaglianza (per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio) devono essere sottoposte ad un rigido sindacato di ragionevolezza.
Tale sindacato, come la Corte costituzionale ha avuto modo a più riprese di affermare, deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia la natura provvedimentale dell’atto legislativo sottoposto a controllo.
Ciò in quanto “la mancata previsione costituzionale di una riserva di amministrazione e la conseguente possibilità per il legislatore di svolgere un’attività a contenuto amministrativo, non può giungere fino a violare l’eguaglianza tra i cittadini. Ne consegue che, qualora il legislatore ponga in essere un’attività a contenuto particolare e concreto, devono risultare i criteri ai quali siano ispirate le scelte e le relative modalità di attuazione” (ex pluribus Cort. cost. 8 maggio 2009, n. 137).
Più di recente, la Corte costituzionale (decisione 23 giugno 2020, n. 116), pur ribadendo l’ammissibilità in linea di principio delle leggi provvedimento, ha evidenziato l’esistenza della eccezione costituita dalle materie “naturaliter amministrative”, le quali, proprio perché tali, postulano di essere regolate nell’ambito del procedimento amministrativo e tutelate sul piano giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo.
Tanto premesso, il Collegio ritiene che la normativa censurata non costituisce una legge provvedimento non presentando il contenuto puntuale tipico dell’atto amministrativo.
Essa è, infatti, indirizzata indistintamente ad una categoria di soggetti – tutti quelli della filiera produttiva del gioco lecito con apparecchi da divertimento e intrattenimento – e non già a singoli nominati soggetti.
In essa non ricorre, pertanto, la fattispecie in cui, con previsione dal contenuto puntuale e concreto, una legge o una sua disposizione incidono su un numero limitato di destinatari o finanche su una singola posizione giuridica (sentenze n. 181 del 2019, n. 24 del 2018, n. 231 del 2014), «attraendo nella sfera legislativa quanto normalmente affidato all’autorità amministrativa» (sentenze n. 168 del 2020 e n. 114 del 2017).
5.2. Sulla base di quanto esposto, è possibile, a questo punto, passare ad analizzare il tema, che assume valenza centrale nella presente controversia, delle eventuali restrizioni, da parte della diposizione e del provvedimento censurati, alla libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE (avendo la Corte di giustizia chiarito nella citata decisione 22 settembre 2022, n. 475, che, nell’ambito del presente giudizio, non pare assumere rilievo anche il tema della eventuale violazione del principio della libertà di servizi).
Al riguardo, rileva il Collegio che una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia ha avuto in più occasioni modo di affermare che devono ritenersi tali tutte le misure che vietino, ostacolino o rendano meno attraente l’esercizio della libertà garantita dall’articolo 49 (v., in tal senso, sentenza del 20 dicembre 2017, Global Starnet, C-322/16, EU:C:2017:985, punto 35 e la giurisprudenza ivi citata).
Nel caso di specie, tramite l’articolo 1, comma 649, della legge di stabilità per il 2015, è stato imposto ai concessionari del settore dei giochi praticati mediante apparecchi da gioco, attraverso un prelievo relativo al solo anno 2015, una riduzione complessiva di euro 500 milioni dei compensi messi a loro disposizione in applicazione delle convenzioni di concessione, riduzione ripartita tra i vari concessionari in proporzione al numero di apparecchi controllati da ciascuno alla data del 31 dicembre 2014, e poi suddivisa da ciascun concessionario tra sé stesso e gli operatori della propria filiera a valle, in proporzione alla partecipazione di ognuno alla distribuzione del compenso.
In proposito, è opportuno evidenziare che, tra i concessionari interessati dal prelievo del 2015, figurano società italiane controllate da società stabilite in altri Stati membri.
La libertà di stabilimento che l’articolo 49 TFUE riconosce ai cittadini degli Stati membri, e che comporta per essi l’accesso alle attività di lavoro non subordinato ed il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese, alle stesse condizioni previste dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i propri cittadini, comprende il diritto di svolgere la propria attività nello Stato membro interessato tramite una controllata, una succursale o un’agenzia (Corte di giustizia 21 dicembre 2016, AGET Iraklis, C-201/15, EU:C:2016:972, punto 45 e la giurisprudenza ivi citata).
Rientra pertanto, segnatamente, nell’ambito della libertà di stabilimento la situazione in cui una società stabilita in uno Stato membro crei una società controllata in un altro Stato membro.
Lo stesso vale, secondo un costante orientamento della giurisprudenza euro-unitaria, nel caso in cui una società o un cittadino di uno Stato membro acquisisca, nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro, una partecipazione che gli permetta di esercitare una sicura influenza sulle decisioni di tale società e di indirizzarne le attività (sentenza del 21 dicembre 2016, AGET Iraklis, C-201/15, EU:C:2016:972, punto 46, e la giurisprudenza ivi citata).
Alla luce delle predette coordinate, il Collegio deve valutare se la misura di prelievo in esame abbia o meno determinato, a carico dei concessionari nel settore dei giochi, un trattamento discriminatorio delle situazioni transfrontaliere rispetto alle situazioni interne, alla luce della libertà garantita dall’articolo 49 TFUE.
Soltanto nel caso in cui il Collegio constati, in relazione al profilo in esame, una restrizione della libertà di stabilimento, si porrebbe, come affermato dalla Corte di giustizia nella sopra richiamata decisione 22 settembre 2022, n. 475, resa nell’ambito del presente giudizio, la successiva questione di un’eventuale giustificazione di tale restrizione.
A tal riguardo, il Collegio preliminarmente evidenzia che il prelievo in esame presenta il carattere di una misura tributaria, come affermato anche dalla Corte di giustizia nella decisione da ultimo indicata, e come testualmente si ricava dall’espressione «prelievo tributario gravante sui giochi» che compare all’articolo 14, comma 1, della legge dell’11 marzo 2014, n. 23.
La Corte di giustizia, nella decisione 22 settembre 2022, n. 475, ha, a tale proposito, chiarito che, sebbene la materia delle imposte dirette rientri nella competenza degli Stati membri, una costante giurisprudenza comunitaria afferma che questi ultimi devono esercitare tale competenza nel rispetto del diritto dell’Unione e, in particolare, delle libertà fondamentali garantite dal Trattato FUE (sentenza dell’11 giugno 2015, Berlington Hungary e a., C-98/14, EU:C:2015:386, punto 34).
In tale contesto, la Corte di giustizia ha però opportunamente rilevato che, in assenza di un’armonizzazione a livello dell’Unione, gli svantaggi che possono derivare dall’esercizio parallelo delle competenze tributarie dei diversi Stati membri non costituiscono restrizioni delle libertà di circolazione, purché tale esercizio di competenze non abbia carattere discriminatorio (in tal senso, sentenze del 26 maggio 2016, NN (L) International, C-48/15, EU:C:2016:356, punto 47, e del 9 settembre 2021, Real Vida Seguros, C-449/20, EU:C:2021:721, punto 38).
Alla luce delle considerazioni esposte, il Collegio ritiene che, dall’esame degli atti di causa e dalle stesse argomentazioni contenute nell’atto di appello, non emerge che il prelievo del 2015 abbia determinato una discriminazione tra i concessionari del settore dei giochi, riservando un trattamento meno favorevole alle situazioni transfrontaliere rispetto a quelle interne, né emerge, del resto, che il suddetto prelievo abbia causato una discriminazione alla rovescia, riservando un trattamento meno favorevole alle situazioni interne rispetto alle situazioni transfrontaliere.
La misura di prelievo tributario in esame ha riguardato, infatti, tutti i concessionari operanti in Italia, tra cui, come detto, figurano società italiane controllate da società stabilite in altri Stati membri.
Essa, pertanto, non ha previsto alcuna discriminazione nei confronti dei concessionari stranieri (rectius delle società italiane controllate da società stabilite in altri Stati membri).
Tale conclusione è stata, del resto, sia pure in via dubitativa, e facendo salvi i poteri di accertamento del giudice del rinvio, nella sostanza condivisa anche dalla stessa Corte di giustizia, nella citata decisione 22 settembre 2022 n. 475, nella quale, al punto 44 della motivazione, ove si è osservato che “Orbene – salva verifica da parte del giudice del rinvio – dai fascicoli a disposizione della Corte nelle presenti cause non risulta che il prelievo del 2015 abbia determinato una discriminazione tra i concessionari del settore dei giochi praticati mediante apparecchi da gioco, riservando un trattamento meno favorevole alle situazioni transfrontaliere rispetto a quelle interne, né consta, del resto, in quale misura il suddetto prelievo potrebbe aver causato una discriminazione alla rovescia, nel presupposto che discriminazioni siffatte siano vietate dal diritto nazionale, riservando un trattamento meno favorevole alle situazioni interne rispetto alle situazioni transfrontaliere.
5.3. Il Collegio deve, a questo punto, esaminare la conformità o meno della normativa in esame alla libertà di stabilimento sotto il diverso profilo della proporzionalità della misura di prelievo in esame, in particolare interrogandosi in ordine alla proporzione tra il fine di interesse pubblico perseguito e il sacrificio imposto ai privati.
Solo, infatti, ove la misura in esame dovesse ritenersi sproporzionata, occorrerebbe ulteriormente interrogarsi sulla eventuale presenza di ragioni imperative di interesse generale (Corte di giustizia 8 settembre 2016, Politanò, C225/15, EU:C:2016:645, punto 44).
In altri termini, soltanto nel caso in cui il Collegio dovesse constatare la presenza di una siffatta restrizione della libertà alla libertà di stabilimento, si porrebbe l’ulteriore questione di un’eventuale giustificazione di tale restrizione.
L’analisi in ordine alla proporzionalità della misura tributaria in esame si impone alla luce del fatto che la Corte di giustizia, nella decisione da ultimo menzionata, ha ritenuto che alcune questioni afferenti al fatto dovessero essere decise dal giudice nazionale remittente, in particolare, affermando che «non consta con chiarezza» se il prelievo «possa avere avuto come conseguenza di ostacolare una gestione redditizia degli apparecchi da gioco da parte dei concessionari esistenti privilegiando in tale modo altri settori del gioco, segnatamente il settore del gioco on line» (par. 45)”.
In ottemperanza al dictum della Corte di giustizia, il Collegio, con la citata ordinanza collegiale n. 1017/23, ha ritenuto necessario “disporre una consulenza tecnica d’ufficio mediante la nomina di un collegio tecnico composto da esperti nei diversi settori rilevanti per definizione della controversia in esame” articolando i seguenti quesiti: “i) quale sia stato, per l’anno 2014, il fatturato totale della società ricorrente, con specificazione separata dei ricavi, dei costi e degli utili; ii) quale sia stata la somma che l’amministrazione ha richiesto di pagare alla Società appellante, specificando – ai fini diversi dall’accertamento dell’ipotetica violazione dei principi europei che si correla necessariamente ad una quaestio iuris e non ad una questio facti – la somma effettivamente versata alla Società; iii) come il “prelievo” disposto abbia inciso in termini percentuali sia sul fatturato complessivo sia sugli utili nell’anno 2014”.
In data 19.9.2023, il collegio dei periti ha depositato l’elaborato tecnico.
Anticipando le conclusioni all’analisi, ritiene il Collegio che dagli esiti della consulenza disposta emerge che il prelievo imposto non appare in contrasto con il suesposto principio di proporzionalità, risultando idoneo a garantire la realizzazione degli obiettivi perseguiti senza eccedere quanto è necessario per raggiungerli.
Al fine di argomentare tale conclusione occorre, in via preliminare, rilevare che la consulenza è stata eseguita nel rispetto delle regole del contraddittorio, offrendo una rappresentazione completa del fenomeno aziendale dei concessionari, idonea a dare conto degli aggregati di bilancio in modo aderente al loro significato economico sostanziale, con particolare riferimento alle remunerazioni previste, in relazione alle concessione relativa ad apparecchi AWP e VLT (rappresentate nei conti economici dei concessionari come ricavi).
I Consulenti tecnici, al fine di rispondere ai quesiti loro posti, hanno esaminato, in particolare, i bilanci relativi alle annualità 2014 e 2015.
Qualora il concessionario non svolgesse per gli anni 2014 e 2015 soltanto l’attività del gioco con apparecchi AWP e VLT, hanno, in maniera condivisibile, ritenuto di isolare i dati con riferimento a queste ultime attività.
Al fine di accertare l’impatto della misura di prelievo tributario sull’andamento della gestione, i consulenti hanno individuato 8 diversi indicatori in relazione ai quali, nondimeno, hanno sostenuto, condivisibilmente, che soltanto “i primi quattro indici rispondono in maniera diretta al terzo quesito della presente CTU, poiché si riferiscono al rapporto tra il prelievo e, rispettivamente, il fatturato e gli utili, nelle diverse configurazioni di queste ultime ritenute rilevanti”.
Nell’ambito dei primi quattro indicatori, allo scopo di determinare in termini percentuali l’impatto sull’andamento della gestione della misura di prelievo tributario in esame, i consulenti hanno fatto leva, in particolare, sui seguenti indicatori: 1) “valore della produzione”, inteso come ricavi dell’intera filiera, ossia la raccolta di gioco meno le vincite e il PREU, sintetizzabile come “fatturato complessivo”. 2) “compenso del concessionario”, inteso come ricavi dello stesso al netto della remunerazione di gestori e del canone di concessione, identificabile come “utile”.
La ragionevolezza del riferimento ai due predetti indicatori si ricava dal fatto che il “valore” richiama la definizione fornita dall’art. 8 par. 2 della Direttiva euro-unitaria 26 febbraio 2014 n. 2014/23/UE relativa alle concessioni, secondo cui: “Il valore di una concessione è costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto, al netto dell’IVA, stimato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a tali lavori e servizi”.
Tale scelta è, inoltre, coerente con la definizione di concessione delineata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (Corte giustizia 10 novembre 2022, n. 486) secondo cui “la caratteristica principale di una concessione, ossia il diritto di gestire un lavoro o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati e i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi aggiudicati in condizioni operative normali, anche se una parte del rischio resta a carico dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore”, con il corollario per cui “Ai fini della valutazione del rischio operativo, dovrebbe essere preso in considerazione in maniera coerente ed uniforme il valore attuale netto dell’insieme degli investimenti, dei costi e dei ricavi del concessionario”.
Ad analoghe conclusioni è giunta anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale ha avuto modo di chiarire chiarito che: “la norma [art. 167 sopra richiamato, n.d.r.], ancorando la stima al fatturato conseguibile dal concessionario, impone di determinare la remunerazione reale dell’investimento. Infatti, il valore della concessione è costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto, al netto dell’IVA, quale corrispettivo dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a tali servizi (Consiglio di Stato, sez. V, 24 agosto 2023, n. 7927).
Tanto premesso, ritiene il Collegio che, al fine di decidere in ordine all’impatto del “prelievo” sull’andamento della gestione, e segnatamente sia sul fatturato complessivo sia sugli utili, l’indicatore n° 8 appare poco pertinente, in quanto strettamente dipendente dalle situazioni economico-finanziario in cui negli anni di riferimento versavano le società interessate, e quindi non facilmente isolabile e valutabile in relazione alla specifica misura tributaria oggetto di analisi.
Di contro, come correttamente osservato dai consulenti, appare maggiormente coerente con la finalità di accertare il reale impatto della misura di prelievo in esame sull’andamento della gestione, l’indice n. 2 poiché esso esprime l’effetto del prelievo rimasto a carico del concessionario sui ricavi direttamente imputabili al concessionario stesso, senza considerare i ricavi afferenti agli altri operatori della filiera.
5.4. A tal riguardo, nondimeno, occorre evidenziare che, in relazione alla posizione di Sisal Italia S.p.A ( già Sisal Entertainment), i consulenti hanno messo in luce che “è ritenuta di scarsa significatività l’incidenza del prelievo sul valore della produzione, ossia sulla remunerazione dell’intera filiera”.
Infatti, come osservato dai consulenti, “Stante la complessa situazione di bilancio della Società nel 2015, con una redditività ridotta dagli elevati oneri finanziari sostenuti e gli elevati ammortamenti, gli indicatori economici sull’utile, da soli, poco evidenziano in merito all’incidenza del Prelievo sul processo di generazione della redditività”.
L’analisi svolta dai consulenti conferma, quindi, che, attese la peculiarità delle situazioni economiche in cui le predette singole società versavano nell’anno 2015, il dato dell’utile ante imposte non appare determinante ai fini dell’incidenza del prelievo.
Tanto premesso, non emerge dagli accertamenti compiuti dai consulenti incaricati che il prelievo tributario in esame abbia avuto come conseguenza di ostacolare una gestione redditizia degli apparecchi da gioco da parte dei concessionari esistenti.
I consulenti, per quanto di interesse nel presente giudizio, hanno, infatti, accertato che:
i) l’incidenza del prelievo del concessionario rispetto al valore della produzione è pari a 4,2% nel 2014 e 4,3% nel 2015;
ii) l’incidenza del prelievo esclusivamente imputabile al concessionario sulle remunerazioni dello stesso, al netto dei costi di filiera, è pari a 10,1% nel 2014 e 10,7% nel 2015;
iii)- l’incidenza del prelievo esclusivamente imputabile al concessionario sul risultato ante imposte dello stesso è pari a 35,1% nel 2014 e 31,0% nel 2015;
iv)- l’incidenza del prelievo esclusivamente imputabile al concessionario sul risultato netto dello stesso è pari a 30,7% nel 2014 e 32,4% nel 2015;
Valutando i dati relativi alla sola concessione AWP-VLT, i consulenti hanno inoltre accertato che:
I) l’incidenza del prelievo del concessionario rispetto al valore della produzione è pari a 6,0% sia nel 2014 che nel 2015;
ii)l’incidenza del prelievo esclusivamente imputabile al concessionario
sul compenso dello stesso è pari a 16,4% nel 2014 e 15,7% nel 2015;
Alla luce delle considerazioni esposte, ritiene il Collegio che nel caso in esame le misure esaminate non hanno ostacolato o scoraggiato l’esercizio della libertà garantita dall’articolo 49 del TFUE (Corte di giustizia 22 settembre 2022, Admiral Gaming Network e a., da C475/20 a C482/20, EU:C:2022:714, punto 33).
Del resto, tali conclusioni erano già state delineate, sia pure in via dubitativa e facendo salvi i poteri di accertamento del Giudice del rinvio, dalla stessa Corte di giustizia, nella decisione 22 settembre 2022 n. 475, nella quale, al punto 45 della motivazione, si è osservato che “fermo restando che anche la verifica di questi aspetti è riservata al giudice del rinvio – non consta con chiarezza che questo stesso prelievo possa aver avuto come conseguenza di ostacolare una gestione redditizia degli apparecchi da gioco da parte dei concessionari esistenti privilegiando in tal modo altri settori del gioco, segnatamente il settore del gioco on line, né in che modo, in un caso siffatto, le situazioni transfrontaliere sarebbero state discriminate rispetto alle situazioni interne (v., a questo proposito, sentenza dell’11 giugno 2015, Berlington Hungary e a., C-98/14, EU:C:2015:386, punti da 39 a 41).
5.5. Dalla affermata conclusione secondo cui la misura in esame non ha determinato una violazione della libertà di stabilimento discende, alla luce delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, nella più volte citata decisione 22 settembre 2022 n. 475, la non necessità di interrogarsi in ordine alla sussistenza di motivi di interesse generale a sostegno dell’imposizione del prelievo del 2015.
Di qui la non rilevanza delle argomentazioni sviluppate nell’atto di appello a sostegno della tesi per cui il prelevo tributario in esame violerebbe la libertà di stabilimento in quanto finalizzato a soddisfare mere esigenze di finanza pubblica.
5.6. Anche se l’assenza, nel caso in esame, della violazione del principio di libertà di stabilimento esonererebbe, a rigore, secondo le indicazioni provenienti dalla più volte citata decisione della Corte di giustizia n. 475/2022, il Collegio dall’analizzare anche il subordinato tema della eventuale violazione del principio di affidamento, cionondimeno si ritiene necessario valutare l’eventuale sussistenza nel caso in esame di una siffatta lesione in considerazione del fatto che, con il primo motivo di appello, si assume la violazione di tale principio, da parte della normativa censurata, anche in relazione parametri di cui agli art. 3 e 41, Cost.
Sul piano generale, rileva il Collegio che il principio di affidamento si ricollega al principio di certezza del diritto.
Esso costituisce un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» e tuttavia la sua tutela non è incondizionata, dovendosi ammettere il potere del legislatore e delle pubbliche amministrazioni di incidere negativamente sulle legittime aspettative dei privati laddove ricorrano determinati presupposti (che sono esplicitamente richiamati al par. 3.2 della sentenza).
La Corte di giustizia — attingendo alle tradizioni giuridiche degli Stati membri — ne ha più volte ribadito la natura di principio generale dell’Unione europea, come tale facente parte del diritto primario (ex plurimis, sentenza 11 luglio 1990, causa 323/88).
La certezza del diritto impone innanzitutto che le norme di legge siano chiare e precise, in modo che i cittadini che ne sono destinatari siano in grado di accertare inequivocabilmente quali siano i diritti e gli obblighi loro attribuiti ed agiscano di conseguenza (sentenza 3 giugno 2008, causa C-308/06, n. 1778; 9 luglio 1981, causa 169/80, n. 321; 13 febbraio 1996, causa C-143/93, n. 875; 21 giugno 2007, causa C-158/06, n. 1004; 10 settembre 2009, causa C-201/08, n. 2196). Tale esigenza si rende ancor più pressante quando le disposizioni normative «poss(o)no avere conseguenze sfavorevoli per gli individui e le imprese» (sentenza 5 luglio 2012, causa C-318/10, Société d’investissement pour l’agriculture tropicale SA c. État belge, n. 1276).
Il principio di certezza del diritto, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, risulta connesso, in chiave rafforzativa e integrativa: i) al principio di legalità, secondo cui atti normativi che spiegano i propri effetti all’interno dell’Unione europea devono essere assunti sulla base di precise previsioni normative (sentenza 22 marzo 1961, causa 49/59); ii) al divieto di retroattività delle norme, diretto a garantire che individui e imprese possano prevedere in anticipo le conseguenze legali delle proprie azioni, salvo qualora, in via eccezionale, lo esiga lo scopo da raggiungere e sia debitamente rispettato il legittimo affidamento degli interessati (sentenze 24 settembre 2002, cause riunite C-74/00 P e C-75/00 P, nn. 1162, 1496, 1943; 22 dicembre 2010, causa C-120/08, n. 1538; 15 luglio 1993, causa C-34/92, nn. 794, 1363; 26 aprile 2004, causa C-376/02); iii) al principio di legittimo affidamento, secondo cui coloro i quali agiscono in buona fede, nel rispetto della legge vigente, non dovrebbero rimanere disattesi nelle loro aspettative (8 aprile 1988, causa 120/86).
A tal proposito la Corte di giustizia ha avuto modo di chiarire che il principio della certezza del diritto, il quale ha come corollario quello della tutela del legittimo affidamento, impone, segnatamente, che le norme giuridiche siano chiare, precise e prevedibili nei loro effetti, in particolare qualora esse possano avere conseguenze sfavorevoli sugli individui e sulle imprese (v., in tal senso, sentenza dell’11 giugno 2015, Berlington Hungary e a., C 98/14, EU:C:2015:386, punto 77 e la giurisprudenza ivi citata).
Tuttavia, un operatore economico non può riporre affidamento nel fatto che non interverrà assolutamente alcuna modifica legislativa, bensì può unicamente mettere in discussione le modalità di applicazione di una modifica siffatta (v., in tal senso, sentenza dell’11 giugno 2015, Berlington Hungary e a., C 98/14, EU:C:2015:386, punto 78 e la giurisprudenza ivi citata).
In ambito CEDU, con particolare riferimento alla parametro di cui all’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto che le leggi aventi effetto retroattivo sono compatibili con il requisito di legalità previsto dalla norma convenzionale, purché tale ingerenza sia necessaria per la tutela di un interesse generale legittimo, e purché l’incisione della proprietà privata, oltre che legittima e diretta a perseguire un interesse pubblico, sia anche ragionevolmente proporzionata al fine che si intende realizzare (cfr., ex plurimis, Maurice c. France, n. 11810/03, § 81; Draon c. France, n. 1513/03, § 73; Kuznetsova c. Russia, n. 67579/01, § 50; Maggio c. Italia, n. 177; Jahn e altri c. Germania, nn. 46720/99, 72203/01 e 72552/01, §§ 81-94; Beyeler c. Italia, n. 33202/96, §§ 108-114; James e altri c. Regno unito, 21 febbraio 1986, § 50).
Anche nell’ordinamento italiano, l’affermazione e il radicamento dei principî «impliciti» della certezza del diritto e del legittimo affidamento può contare su di una consolidata elaborazione giurisprudenziale, amministrativa (ex plurimis, Cons. Stato n. 6143 del 2017) e costituzionale (a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 349 del 1985; n. 822 del 1988; n. 155 del 1990; n. 39 del 1993), che ne attesta la compatibilità con i caratteri propri del diritto pubblico.
Dall’analisi dei suindicati formanti giurisprudenziali si ricava come l’affidamento si atteggia quale limite (generale ma) non incondizionato alla retroattività («propria» e «impropria») dell’atto dei pubblici poteri, potendo recedere al cospetto di altre esigenze inderogabili.
Secondo una costante giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, qualora un operatore economico prudente e avveduto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, esso non può invocare detto principio nel caso in cui il provvedimento venga adottato.
Su analoghe basi argomentative si è, inoltre, evidenziato che gli operatori economici non possono fare legittimamente affidamento sul mantenimento di una situazione esistente, che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali (cfr. Corte di giustizia 15 aprile 2021, Federazione nazionale delle imprese elettrotecniche ed elettroniche (Anie) e a., C-798/18 e C-799/18, EU:C:2021:280, punto 42 nonché la giurisprudenza ivi citata).
Dalla sopra richiamata giurisprudenza (della Corte costituzionale, delle corti sovranazionali e di questo stesso Consiglio di Stato) emergono quindi indicazioni sufficientemente chiare per giungere alla conclusione che il principio di affidamento nel caso in esame non è stato violato.
Va, al riguardo, in primo luogo escluso che la misura di che trattasi abbia prodotto, come invece assume l’appellante, effetti retroattivi in senso proprio.
Il prelievo di 500 milioni, per effetto della riforma recata dall’art. 1, comma 921, della legge di stabilità per il 2016, ha inciso esclusivamente in relazione all’annualità 2015.
Si tratta, pertanto, di un caso di retroattività c.d. «impropria»: la norma ha prodotto effetti solo ex nunc, anche se con riferimento a fatti compiuti nel passato (i contratti «vigenti»).
La disposizione in esame ha infatti disposto che «la riduzione su base annua delle risorse statali a disposizione, a titolo di compenso, dei concessionari e dei soggetti» operanti nella filiera del gioco lecito «si applica a ciascun operatore della filiera in misura proporzionale alla sua partecipazione alla distribuzione del compenso, sulla base dei relativi accordi contrattuali, tenuto conto della loro durata nell’anno 2015».
Sotto altro profilo, la «base affidante» dei soggetti incisi dal provvedimento dell’autorità deve apprezzarsi, come detto, sulla scorta del canone della prevedibilità (sovente applicato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea: cfr. le sentenze 29 aprile 2004, cause riunite C-487/01 e C-7/02, nn. 1513, 1539; 10 settembre 2009, causa C-201/08, Plantanol, punti 46 ss., cit.; 19 dicembre 2013, causa C-563/12, n. 2317).
Nel caso in esame, la misura di prelievo non è intervenuta, diversamente a quanto ritenuto nell’atto di appello, in modo «improvviso e imprevedibile» e, come si è avuto modo di chiarire in occasione dell’analisi del sub motivo relativo alla asserita violazione del principio della libertà di stabilimento, essa rispetta il limite della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti.
Come la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare in più occasioni, il valore del legittimo affidamento riposto nella sicurezza giuridica trova sì copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., ma non già in termini assoluti e inderogabili.
Ne discende che “non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti», unica condizione essendo «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» (Corte costituzionale n.56 del 2015, n. 302 del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009) .
Tali principi valgono, a maggior ragione, in relazione ai rapporti di concessione di servizio pubblico, nei quali, alle menzionate condizioni, la possibilità di un intervento pubblico modificativo delle condizioni originarie è da considerare in qualche modo connaturata al rapporto fin dal suo instaurarsi.
Va, a tal riguardo, evidenziato che gli operatori del servizio del gioco lecito non sono semplici fornitori di servizi, del tutto deresponsabilizzati rispetto al governo del settore, bensì sono soggetti ad un complesso sistema pubblico-privato apprestato per assolvere ai compiti di interesse economico generale, le cui relazioni contrattuali sono conformate da precise esigenze generali di carattere organizzatorio, finalizzate, in ultima analisi, alla protezione di una esigenza primaria della persona.
I rapporti di gestione di un servizio pubblico di lunga durata, del resto, sono sempre esposti alle novità normative sopravvenute nel corso del tempo.
Del resto, come è stato correttamente affermato, la concessione costituisce il viatico di ingresso della posizione del concessionario all’interno dell’ordinamento giuridico generale, nel senso che, in mancanza dell’atto, il destinatario non è legittimato, sulla base delle regole giuridiche generali, a svolgere quell’attività o a ricoprire quella posizione.
Ciò in quanto i procedimenti concessori hanno a oggetto l’amministrazione di interessi relativi a beni della vita riservati ai pubblici poteri.
L’attribuzione ai privati delle posizioni che involgono tali interessi pubblici avviene sul presupposto di una previa decisione in tal senso dell’Amministrazione rispetto alla quale il soggetto istante è portatore di una posizione di interesse legittimo (C.G.A., 16 ottobre 2020, n. 935).
La Corte costituzionale, con la decisione del 31 marzo 2015, n. 56, ha, proprio con riferimento alle concessioni di servizio pubblico, affermato che il principio del legittimo affidamento e la certezza del diritto sono valori tutelati dalla Costituzione italiana, ma non in termini assoluti e inderogabili.
In relazione alle concessioni di servizio pubblico, la Corte costituzionale ha, inoltre, chiarito che la possibilità di un intervento pubblico modificativo delle condizioni originarie è da considerarsi in qualche modo connaturata al rapporto concessorio fin dal suo instaurarsi, il che deve essere tanto più vero in un ambito così delicato come quello dei giochi pubblici, nel quale i valori e gli interessi coinvolti appaiono meritevoli di speciale e continua attenzione da parte del legislatore nazionale.
La Corte costituzionale ha, inoltre, costantemente negato che sia «configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica allorché l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all’utilità sociale», oltre, ovviamente, alla protezione di valori primari attinenti alla persona umana, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, Cost., purché, per un verso, l’individuazione dell’utilità sociale «non appaia arbitraria» e, «per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue» (ex plurimis, sentenze n. 247 e n. 152 del 2010; n. 167 del 2009).
Questi principi, secondo la giurisprudenza costituzionale, devono essere osservati anche nella disciplina legislativa di un’attività economica considerata quale pubblico servizio, che è pur sempre espressione del diritto di iniziativa economica garantito dall’art. 41 Cost., con la particolarità che al regime di ogni servizio pubblico è connaturale l’imposizione di controlli e programmi per l’indirizzo dell’attività economica a fini sociali, sicché in tali ipotesi «[…] la individuazione da parte del legislatore dell’utilità sociale può sostanziarsi di valutazioni attinenti alla situazione del mercato» e «può dar luogo ad interventi legislativi tali da condizionare in qualche modo le scelte organizzative delle imprese», sempre che l’individuazione dell’utilità sociale non appaia arbitraria e che gli interventi del legislatore non perseguano l’individuata utilità sociale mediante misure palesemente incongrue, ed in ogni caso che l’intervento legislativo non sia tale da condizionare le scelte imprenditoriali in grado così elevato da indurre la funzionalizzazione dell’attività economica di cui si tratta sacrificandone le opzioni di fondo» (Corte cost. sentenza n. 56/2015).
Su queste basi, nel caso in esame, l’operatore prudente e accorto avrebbe potuto ragionevolmente prevedere di essere esposto a possibili interventi normativi correttivi del rapporto pubblico di concessione.
Nella fattispecie in esame, si versa, infatti, come anticipato, in un caso di attività economica svolta dal privato in regime di concessione di un servizio pubblico riservato al monopolio statale e connotato dai preminenti interessi generali menzionati nel comma 77 dell’art. 1 della legge n. 220 del 2010.
Al regime concessorio, in questa materia, è dunque connaturale l’imposizione di penetranti limitazioni della libertà di iniziativa economica, che rispondono alla protezione dei suesposti interessi.
E tanto più lo è in un settore che, per le ragioni già indicate, presenta profili di delicatezza del tutto particolari, connessi alla rischiosità e ai pericoli propri della peculiare attività economica soggetta al regime di concessione.
5.7. Neppure coglie nel segno il sub-motivo con il quale viene dedotta la violazione, da parte delle norme censurate, dell’art. 41, primo comma, Cost., con riferimento sia alla lesione della libertà di iniziativa economica privata dei concessionari in generale, sia in riferimento lesione della libertà contrattuale dei concessionari.
La censura, per evidenti ragioni di interconnessione, va esaminata congiuntamente all’ulteriore censura con la quale si fa valere la violazione anche del parametro di cui all’art 3 Cost.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla parte appellante, la costante giurisprudenza costituzionale, in tema di restrizioni della libertà di iniziativa economica privata, ne ha individuato il limite insuperabile esclusivamente nell’arbitrarietà e nell’incongruenza – e quindi nell’irragionevolezza – delle misure restrittive adottate per assicurare l’utilità sociale.
La Corte Costituzionale ha, di contro, «costantemente negato che sia “configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica allorché l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all’utilità sociale”…. purché, per un verso, l’individuazione dell’utilità sociale “non appaia arbitraria” e, “per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue” (ex plurimis, sentenze n. 247 e n. 152 del 2010; n. 167 del 2009)» (ex multis, Corte costituzionale 23 novembre 2021, n.218; n. 56 del 2015).
Nel delineato quadro ermeneutico, libera iniziativa economica e limiti al suo esercizio devono costituire oggetto, nel quadro della garanzia offerta dall’art. 41, Cost. – considerato sia nel suo primo comma, sia nei due commi successivi che, della invocata libertà, definiscono portata e limiti – di una complessa operazione di bilanciamento.
In essa vengono in evidenza, per un verso, il contesto sociale ed economico di riferimento, che nel caso di che trattasi attiene a mercati peculiari, fortemente correlati ad esigenze di finanza pubblica, e, per altro verso, le legittime aspettative degli operatori, in particolare quando essi abbiano dato avvio, sulla base di investimenti e di programmi, a un’attività imprenditoriale in corso di svolgimento.
E al riguardo si deve sottolineare che uno degli aspetti caratterizzanti della libertà di iniziativa economica è costituito dalla possibilità di scelta spettante all’imprenditore: scelta dell’attività da svolgere, delle modalità di reperimento dei capitali, delle forme di organizzazione della stessa attività, dei sistemi di gestione di quest’ultima e delle tipologie di corrispettivo.
Nel quadro della richiamata giurisprudenza costituzionale, legittimamente in base a quanto previsto all’art. 41, Cost., il legislatore può intervenire a limitare e conformare la libertà d’impresa, fermo restando che il perseguimento di tale finalità incontra pur sempre il limite della ragionevolezza e della necessaria considerazione di tutti gli interessi coinvolti.
La libertà d’impresa non può subire infatti, nemmeno in ragione del doveroso obiettivo di piena realizzazione di finalità sociali, interventi che ne determinino un radicale svuotamento, come avverrebbe nel caso di un completo sacrificio della facoltà dell’imprenditore di compiere le scelte organizzative che costituiscono tipico oggetto della stessa attività d’impresa.
Nondimeno, alla luce di quanto rilevato in occasione dell’esame del sub-motivo riguardante la violazione della libertà di stabilimento, la libertà di iniziativa economica è stata limitata nei limiti di un apprezzabile sacrificio.
La ragionevolezza dell’obbligo di versamento censurato si collega innanzitutto alle dimensioni del suo oggetto: come detto, l’obbligo di versamento in esame, alla luce della riforma recata dalla legge di bilancio per l’anno 2016, consente al concessionario di conservare una sfera di residua attività operativa.
5.8. Parimenti destituita di fondamento è la dedotta la violazione, da parte delle norme dalle norme censurate, dell’art. 41, primo comma, Cost, con riferimento lesione della libertà contrattuale dei concessionari.
A tal riguardo, il Collegio certamente condivide l’assunto di partenza, da cui muove la parte appellante, secondo cui la garanzia posta nel primo comma dell’art. 41, Cost., nell’ambito circoscritto dai successivi due capoversi riguarda non soltanto la fase iniziale di scelta dell’attività, ma anche i successivi momenti del suo svolgimento; ed è ugualmente certo che, poiché l’autonomia contrattuale in materia commerciale è strumentale rispetto all’iniziativa economica, ogni limite posto alla prima si risolve in un limite della seconda, ed è legittimo, perciò, solo se preordinato al raggiungimento degli scopi previsti o consentiti dalla Costituzione» (Corte costituzionale sentenza n. 30 del 1965).
La circostanza che l’onere economico è ripartita tra gli operatori della filiera secondo i meccanismi già esaminati (par. 3) rende infondata la censura. Infatti, dopo la riforma del 2016, è stato individuato un criterio oggettivo che è posto alla base dell’obbligo di rinegoziazione dei contratti già stipulati e che consente di dividere il peso economico del prelievo tra i diversi operatori della filiera. Ed è proprio tale novità normativa, analizzata alla luce delle risultanze della consulenza tecnica, che depone per l’infondatezza del motivo.
Di qui la infondatezza della dedotta lesione della libertà contrattuale dei concessionari.
5.9. Non fondata si rileva, ad avviso del Collegio, anche la prospettata violazione, da parte delle norme dalle norme censurate, dell’art. 42, terzo comma, Cost.
Secondo un constante indirizzo della giurisprudenza costituzionale, la garanzia di cui al citato art. 42, terzo comma, Cost. contempla «nell’ambito della tutela della proprietà, accanto alla fattispecie dell’espropriazione formale, il complesso delle situazioni, le quali, pur non concretando un trasferimento totale o parziale di tale diritto, ne svuotino il contenuto» (ex plurimis, sentenze n. 92 del 1982, n. 89 del 1976, n. 55 del 1968).
La garanzia di cui all’art. 42, comma 2, opera, pertanto, esclusivamente nei confronti delle ablazioni reali, cioè di quelle espropriazioni che concernono i beni, con l’imposizione di limiti e vincoli che li svuotino del loro contenuto e non anche in riferimento alle prestazioni (o ablazioni) obbligatorie (sentenza n. 290 del 1987).
Nel caso in esame un fenomeno di ablazione (sia reale che personale), alla luce degli accertamenti contenuti nella consulenza tecnica, nemmeno è ipotizzabile con riferimento alle somme pagate dal concessionario, giacché la supposta perdita totale o parziale del capitale investito costituirebbe al più un’incidenza solo riflessa dei vincoli di gestione imposti dalle norme denunciate, e si collocherebbe, come tale, fuori dall’ambito di protezione della norma costituzionale.
Le complessive argomentazioni esposte rendono, pertanto, evidenti le ragioni per le quali il Collegio ritiene manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’appellante in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3 e 41 e 42, Cost.
5.10. Va inoltre respinto il terzo motivo con il quale si deduce la violazione dell’art. 117, Cost, in relazione all’art. 1 dall’art. 1 Protocollo n. 1, CEDU.
In via generale, va premesso che le norme convenzionali, interposte tra la Costituzione e la legge ordinaria alla stregua di fonti intermedie tra leggi ordinarie e precetti costituzionali, sono idonee a fungere sia da parametro di costituzionalità ex art. 117, Cost., sia (esse stesse) da oggetto del giudizio di costituzionalità; le disposizioni della CEDU, nondimeno, rimanendo pur sempre a un livello sub-costituzionale, non si sottraggono al controllo di costituzionalità, essendo evidente, sul piano logico e sistematico, che la Costituzione non può essere integrata da fonti che ne violino i valori precettivi: la costituzionalità delle norme internazionali è, quindi, una precondizione ineludibile per il funzionamento del meccanismo di interposizione plasmato dall’articolo 117 citato( cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 12 gennaio 2022, n.1).
Al giudice comune spetta, pertanto, di interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, tenendo peraltro sempre conto degli interessi costituzionalmente protetti in altri articoli della Costituzione.
Pertanto, l’art. 117, comma 1, Cost., condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le cui norme (come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo) costituiscono fonte integratrice del parametro di costituzionalità introdotto dal citato comma 1 dell’art. 117 Cost. e la cui violazione da parte di una legge statale o regionale comporta l’illegittimità costituzionale della stessa, a meno che la norma della Convenzione non risulti a sua volta –a giudizio della Corte- in contrasto con una norma costituzionale (si tratta dell’operatività dei cc.dd. contro-limiti, soggetti a loro volta condizioni chiarite in dottrina come in giurisprudenza, che ne danno una lettura in senso “costruttivo” e non limitativo del diritto convenzionale).
Di conseguenza, ove si ravvisi un contrasto della legge nazionale con i parametri della CEDU, la soluzione non può essere l’applicazione diretta della stessa e l’unica strada consentita all’interprete è rimettere la questione alla Corte costituzionale perché valuti la costituzionalità della legge alla luce del parametro interposto descritto dall’art. 117, coma 1, Cost.
Nel caso di specie, tuttavia, non si ravvisa il contrasto con il parametro di cui all’art. 1 del protocollo 1 CEDU, così come prospettato dalla parte appellante.
Secondo la citata disposizione convenzionale, “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” e la Corte EDU, valorizzando proprio la nozione di bene, ha ascritto a tale paradigma la tutela dell’affidamento legittimo (“legitimate expectation”), situazione soggettiva dai contorni più netti di una semplice speranza o aspettativa di mero fatto (“hope”).
A tal riguardo, il Collegio preliminarmente rileva che la Corte costituzionale in più occasioni ha affermato il principio per cui “la tutela dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro. Naturalmente, alla Corte europea spetta di decidere sul singolo caso e sul singolo diritto fondamentale, mentre appartiene alle autorità nazionali il dovere di evitare che la tutela di alcuni diritti fondamentali – compresi nella previsione generale ed unitaria dell’art. 2 Cost. – si sviluppi in modo squilibrato, con sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla Carta costituzionale e dalla stessa Convenzione europea” (Corte cost., 4 dicembre 2009, n. 317).
Il principio è stato ribadito dalla decisione della Corte costituzionale n. 25/2019, nella quale si è affermato che “Posto che, venendo in rilievo diritti fondamentali, il rispetto degli obblighi convenzionali può e deve costituire strumento di ampliamento della tutela degli stessi, tuttavia, anche quando in relazione a una data fattispecie la tutela riconosciuta dalla giurisprudenza convenzionale risulti più ampia di quella riconosciuta dall’ordinamento costituzionale, non esiste alcun automatismo nel progressivo adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, stante il predominio assiologico della Costituzione. In proposito, la Corte opera una valutazione sistemica e non isolata dei valori coinvolti dalla norma scrutinata ed è tenuta quindi a quel bilanciamento in cui si sostanzia il margine di apprezzamento che spetta agli Stati membri, che può condurre a una valutazione non necessariamente convergente rispetto a quella della Corte di Strasburgo sottesa all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla CEDU da parte della norma scrutinata”.
In coerente applicazione di tale principio, e quindi procedendo ad una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, la Corte costituzionale, con la decisione 28 ottobre 2012, n. 264 del 2012, ha rivendicato la “propria competenza a valutare come ed in quale misura l’applicazione della Convenzione da parte della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano” e, sul piano del bilanciamento tra principi e valori costituzionali, ha valorizzato, nel respingere la questione di costituzionalità, il principio contenuto nell’art. 81, quarto comma, della Costituzione, da intendere come espressione dell’esigenza di razionalità complessiva del sistema finanziario.
Del resto, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, nella decisione 14 maggio 2013, ric.n. 66529/11, nel caso N.K.M. c. Ungheria, (cfr.§§ 49 e 61), con riferimento al parametro di cui all’art. 1, protocollo 1, CEDU, ha ritenuto che l’ingerenza di una pubblica autorità nel pacifico godimento dei “beni” può essere giustificata, sul piano delle legittime ragioni di pubblica utilità, dall’esigenza di adottare misure finalizzate a tutelare le risorse finanziarie pubbliche (N.K.M. c. Ungheria, §§ 49 e 61);
Alla luce delle coordinate esposte, il Collegio osserva che, per effetto dei temperamenti apportati dalla riforma del 2015, la misura di prelievo di che trattasi appare legittima e diretta a perseguire un legittimo interesse pubblico costituito dall’esigenza di razionalità complessiva del sistema finanziario (art. 81, quarto comma, della Costituzione), nel quadro di una peculiare contesto di grave congiuntura economica nel quale il legislatore è stato costretto ad operare.
Essa appare, inoltre, anche ragionevolmente proporzionata rispetto al fine che intendeva realizzare.
Va, a tal proposito, ribadito, ancora una volta, che non emerge dagli accertamenti compiuti dai consulenti incaricati che il prelievo tributario in esame abbia avuto come conseguenza quella di ostacolare una gestione redditizia degli apparecchi da gioco da parte dei concessionari esistenti.
5.11. Le complessive considerazioni esposte, e quelle ulteriori di seguito formulate, consentono di disattendere anche l’ulteriore articolato sub-motivo con il quale la parte appellante assume che i seguenti profili di incostituzionalità, dai quali sarebbe originariamente affetto l’art. 1, comma 649, della legge n. 190/2014, non sarebbero superati per effetto dello allo ius superveniens di cui all’art. 1, comma 920, della legge 208/2015:
i) irragionevolezza della scelta di ancorare il parametro di calcolo del prelievo forzoso, espressamente previsto come “riduzione dei compensi” destinati alla filiera del gioco lecito, al numero degli apparecchi e non alla loro effettiva redditività;
ii) conseguente disparità di trattamento determinata dalla previsione di una riduzione dei compensi determinata in misura fissa e non come misura commisurata al guadagno effettivo dei singoli operatori e, in ogni caso, destinata ad incidere su un solo comparto del gioco (quello praticato mediante apparecchi);
iii) violazione del principio di affidamento del concessionario in quanto gravato dall’obbligo di un pagamento stabilito in misura fissa e non graduabile, tale da compromettere la stabilità dell’equilibrio sinallagmatico del rapporto convenzionale.
Il Collegio non ravvisa una irragionevole disparità di trattamento rispetto ad ulteriori e diversi settori del gioco lecito, i quali, per le peculiari caratteristiche che li contraddistinguono, non possono essere equiparati ai giochi praticati mediante apparecchi.
La parte appellante, in relazione al profilo in esame, muove, invero, dalla indimostrata premessa della identità tra i diversi settori del gioco lecito, da cui fa discendere il corollario della irragionevole disparità di trattamento legislativa.
Anche a volere prescindere dal fatto che, nel caso di che trattasi, manca anche un principio di prova in ordine alla perfetta identità di situazioni oggettive che vengono in rilievo, il Collegio rileva che, com’è stato correttamente evidenziato dall’Avvocatura generale dello Stato, e come incontrovertibilmente dimostrano gli esiti della consulenza disposta, più della metà del volume di affari del gioco lecito è riconducibile a quello praticato mediante apparecchi.
Segnatamente, nel 2014, a fronte di un totale di 84, 5 miliardi di euro, il volume di gioco degli apparecchi è stato pari a più di 47 miliardi di euro.
Tali dati dimostrano che il settore dei giochi praticati mediante apparecchi è particolarmente remunerativo, molto più degli altri, e tale da integrare un mercato, per così dire, separato a causa delle ontologiche peculiarità che contraddistinguono sia il lato della domanda sia quello dell’offerta.
L’assunto trova conferma nel provvedimento 13 settembre 2018, n. 27316, dell’Autorità per la concorrenza e del mercato nel quale si è, in maniera condivisibile, affermato che “i diversi giochi e le diverse tipologie di scommesse, in ragione delle caratteristiche dei prodotti e delle abitudini dei clienti scommettitori – anche alla luce della più recente e variegata offerta attraverso il canale online, di crescente importanza – potrebbero col tempo aver assunto specificità autonome, tali da far considerare ciascuna attività un mercato rilevante a sé stante”.
Le evidenziate diversità sorreggono, pertanto, sul piano della ragionevolezza, la diversa strategia legislativa, che, ad esempio, nel diverso settore dei giochi numerici a totalizzatore nazionale, si è tradotta (art. 1, comma 576, lettera d), della legge n. 232/2016) nell’indicare, tra le condizioni essenziali delle procedure ad evidenza pubblica di affidamento delle nuove concessioni, la determinazione di un aggio più ridotto, in quanto costituito dalla misura del 5 per cento della raccolta “con offerta al ribasso”.
5.12. Passando ad esaminare la censura relativa alla asserita illogicità del riferimento che la legge fa ad un dato statico, costituito dal numero di apparecchi riferibile a ciascun concessionario ad una certa data, anziché ad un dato dinamico, il volume di raccolta delle giocate”, il Collegio rileva quanto segue.
L’art. 14, comma 2, lett. g), della legge n. 23/2014, originariamente stabiliva che la revisione degli aggi e compensi spettanti ai concessionari e agli altri operatori “secondo un criterio di progressività legata ai volumi di raccolta delle giocate”.
L’art. 1, comma 649, della legge n. 190/2014, ha, invece, stabilito che l’onere di carattere tributario di complessivi 500 milioni di euro graverà su ogni concessionario “ciascuno in quota proporzionale al numero di apparecchi ad essi riferibili alla data del 31 dicembre 2014”.
In via generale, il Collegio ricorda che, la Corte costituzionale ha ripetutamente rimarcato che «la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria»; piuttosto essa esige «un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)» (sentenza n. 341 del 2000, ripresa sul punto dalla sentenza n. 223 del 2012).
Pertanto, secondo gli orientamenti costantemente seguiti dalla Corte costituzionale, non ogni modulazione del sistema impositivo per settori produttivi costituisce violazione del principio di capacità contributiva e del principio di eguaglianza. Tuttavia, ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione.
Numerosi sono, infatti, i casi di temporaneo inasprimento dell’imposizione – applicabili a determinati settori produttivi o a determinate tipologie di redditi e cespiti – ritenuti non illegittimi da Corte costituzionale in forza della loro limitata durata: basti menzionare la sovraimposta comunale sui fabbricati (sentenza n. 159 del 1985), l’imposta straordinaria immobiliare sul valore dei fabbricati (sentenza n. 21 del 1996), il tributo del sei per mille sui depositi bancari e postali (sentenza n. 143 del 1995), il contributo straordinario per l’Europa (sentenza n. 10 del 2015; ordinanza n. 341 del 2000).
Tale evenienza ricorre anche nel caso in esame, in relazione al quale il legislatore, in ragioni delle sopravvenute esigenze di finanza pubblica dovute alla complessa congiuntura economica registratasi al tempo dell’adozione della misura in analisi, ha introdotto una forma di prelievo una tantum in relazione alla sola annualità 2015 a carico degli operatori della filiera del gioco lecito praticato mediante macchinette.
Così interpretato, reputa il Collegio che lo scopo perseguito dal legislatore appare senz’altro legittimo.
La ragione per la quale il legislatore, mutando l’originaria previsione legislativa, ha deciso di ancorare l’onere tributario al criterio oggettivo del numero di apparecchi risiede, all’evidenza, nella concreta difficoltà di operare una valutazione specifica sulla “produttività” di ogni singolo apparecchio.
Come correttamente osservato dall’Avvocatura generale dello Stato, una siffatta valutazione potrebbe compiutamente effettuarsi solo una volta che fosse esperita le attività di liquidazione e di accertamento dell’imposta dovuta per ciascun apparecchio: tuttavia la liquidazione del tributo può compiersi nei due anni successivi a quello per il quale è dovuto la stessa imposta (v. art. 39-bis del decreto legge 269/2003) e l’accertamento del tributo può invece compiersi entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui sono state effettuate le giocate tramite gli apparecchi, e quindi erogate le somme su cui è calcolato l’imposta (v. art. 39-quater del decreto legge 269/2003).
Inoltre, il parametro oggettivo costituito dal numero di apparecchi riferibili a ciascun concessionario alla data del 31 dicembre 2014, ai fini della ripartizione dell’onere tributario in esame, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellante, si fonda sulla ragionevole presunzione per cui, maggiore è il numero di apparecchi riferibili, maggiore è la raccolta delle giocate raccolte, di conseguenza tanto maggiore sarà la partecipazione al contributo disposto dal legislatore.
Pertanto, il legislatore, nel ritenere di circoscrivere la riduzione dell’aggio al segmento del gioco lecito praticato mediante apparecchi, nella sua discrezionalità, ha stabilito un criterio più oggettivo e di più agevole applicazione.
Inoltre, anche con riferimento alla censura in esame, la parte appellante si è limitata genericamente ad affermare la violazione del principio di uguaglianza per effetto dell’applicazione del criterio oggettivo costituito dal numero di apparecchi riferibili a ciascun concessionario, senza in alcun modo dimostrare che la sua applicazione abbia concretamente comportato l’esborso di una somma maggiore rispetto a quella che avrebbe invece versato ove fosse stato utilizzato il criterio del volume di raccolta delle giocate.
5.13. Infine, non coglie nel segno la censura che fa leva sulla violazione del principio di affidamento del concessionario per effetto dell’obbligo di un pagamento stabilito in misura fissa e non graduabile, tale da compromettere la stabilità dell’equilibrio sinallagmatico del rapporto convenzionale.
In senso contrario il Collegio, oltre a richiamare le precedenti considerazioni formulate al punto 4.3. della parte in diritto, osserva che la Corte costituzionale, con la citata decisione 6/2015, ha chiarito che “non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, unica condizione essendo che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto”).
In tale decisione si è inoltre evidenziato che “Pertanto, ove gli interessi pubblici tutelati sono individuabili nella necessità di un maggiore concorso agli obiettivi di finanza pubblica da parte della filiera che opera nella gestione e raccolta del gioco praticato mediante apparecchi di cui all’art. 110, comma 6, T.U. n. 773 del 1931, una maggiore imposizione fiscale è certamente legittima laddove non si rilevi sproporzionata rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti.”
6. Con il quarto mezzo di gravame la società appellante deduce: “Errores in iudicando, anche per infrapetizione, in relazione alle censure proposte con il ricorso introduttivo. Illegittimità autonoma. Violazione dell’articolo 3 della convenzione di concessione sottoscritta in data 20 marzo 2013. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 649 della legge 23 dicembre 2014, n. 190. Eccesso di potere per violazione della corretta sequenza procedimentale, illogicità e contraddittorietà manifeste”.
6.1. Ad avviso della società appellante, il decreto 15 gennaio 2015 n.388 e prot. n. 4076/RU dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli sarebbe stato assunto in violazione delle prescrizioni contenute nella vigente convenzione di concessione, la quale, all’art 3, prevede che: “AAMS può richiedere al concessionario, che si impegna sin d’ora ad accettare, di apportare, nel periodo di validità della concessione, variazioni alle attività indicate nell’atto di convenzione e nel capitolato tecnico e relativi allegati, che si rendano necessarie qualora ricorrano eventi non prevedibili che determinano sostanziali cambiamenti di contesto, anche a seguito di eventuali modifiche normative o di provvedimenti di AAMS relativi alla gestione del gioco lecito attraverso apparecchi da divertimento ed intrattenimento”.
Il punto 4 del citato articolo 3 dispone, inoltre, che: “Le integrazioni dell’atto di convenzione, di cui ai commi 1, 2 e 3, sono recepite e formalizzate in apposito atto aggiuntivo che, sottoscritto dalle parti, costituisce ulteriore elemento integrante dell’atto di convenzione”.
Dall’esame del riportato quadro regolatorio risulterebbe pacifico, nella prospettiva in esame, che l’art 1, comma 649, della L. 190/14 ed il citato decreto dell’Agenzia dei Monopoli hanno introdotto plurime modifiche alla convenzione di concessione, riguardanti:
i) la misura del compenso economico;
ii) la variazione delle modalità dei flussi di pagamento;
iii) il contenuto delle obbligazioni dei contratti con i terzi incaricati.
Ne discenderebbe che l’Agenzia delle dogane e dei monopoli, alla luce del predetto art. 3 della convenzione, contrariamente a quanto avvenuto, avrebbe dovuto:
i)predisporre un apposito atto integrativo alla convenzione di concessione contenente le varie modifiche;
ii)trasmetterlo previamente al Consiglio di Stato per l’emanazione del parere obbligatorio ai sensi dell’art 17, comma 25, della legge 127/97;
iii)ottenuto il parere di legittimità, trasmetterlo ai concessionari ed invitarli alla stipula.
7. Il motivo non è fondato.
Contrariamente a quanto ritenuto nell’atto di appello, le variazioni alle quali si riferisce l’art. 3 della convenzione di concessione, concernono esclusivamente le attività che formano oggetto della convenzione che l’Amministrazione ha il diritto di pretendere dal concessionario in relazione ai livelli di servizio oggetto del capitolato d’oneri posto a base della procedura di gara pubblica e non anche le fonti di integrazione eteronome del rapporto confessorio nelle quali va correttamente collocato il prelievo imposto dalla legge 190/2104, come successivamente modificata dalla legge 208/2015, a cui il decreto n. 4076 ha dato applicazione.
L’assunto trova conferma nell’art. 12 della Convenzione, rubricato “Responsabilità finanziaria del concessionario”, che stabilisce a chiare lettere l’impegno del concessionario “espressamente ed incondizionatamente a versare le somme a qualsiasi titolo dovute in esecuzione dell’atto di convenzione, nonché di ogni altra norma o provvedimento che disciplina gli apparecchi di gioco AWP e i sistemi di gioco VLT, secondo le modalità ed i tempi dagli stessi previsti” e, in particolare, l’obbligo di questi “ad assicurare i versamenti, a favore di AAMS [oggi ADM] e dell’Erario, secondo quanto definito dalle disposizioni normative e regolamentari vigenti in materia”.
Il contestato decreto direttoriale prot. n. 4076 correttamente s’inserisce nel quadro regolatorio suesposto, quale provvedimento a contenuto sostanzialmente normativo.
Sul punto occorre rammentare che la Sezione, con la decisione 2841/2010 del 9 febbraio 2010, resa in riferimento alla legittimità dei decreti direttoriali del 21 marzo 2006 e, (ad integrazione di quest’ultimo) del 25 giugno del 2007, recanti “misure per la regolamentazione della raccolta a distanza delle scommesse, del Bingo e delle Lotterie” ha già avuto modo di affermare, con argomentazioni dalle quali il Collegio non intende discostarsi, che: “Gli atti in contestazione sono quindi dei regolamenti che, quanto agli aspetti formali e di formazione, non abbisognano dell’iter procedurale scandito per i regolamenti c.d. governativi e/o delegificanti e, quanto al contenuto sostanziale da essi recati, ben assolvono alla funzione di dettare una precipua disciplina dei rapporti su cui vanno ad incidere. In altri termini, come peraltro già statuito da questo Consiglio di Stato, (cfr Sezione Atti normativi 11/7/2005) gli atti di natura regolamentare di qualsiasi livello essi siano, in quanto espressione della potestà attribuita all’amministrazione di incidere, integrandola ed arricchendola, su un preesistente e sovrastante disciplina legislativa non possono che avere natura normativa. Ai fini, quindi, della individuazione della natura dell’atto, non operando un principio di tipicità delle fonti, con riferimento agli atti di formazione secondaria, deve soccorrere una indagine di tipo sostanzialistico (secondo la metodologia costantemente utilizzata anche dalla Corte costituzionale) e se così è , non v’è motivo per non riconoscere al decreto direttoriale AAMS del giugno del 2007 la natura regolamentare, non rilevando, in senso contrario, il mancato rispetto delle prescrizioni contenute nell’art.17, 4 comma, della legge n.400/88, consistenti nell’utilizzo del nomen juris “regolamento” e nella sottoposizione dell’atto al Consiglio di Stato per il parere e alla Corte dei conti per il visto e la registrazione”.
In conclusione, il Collegio ribadisce che il prelievo in esame consiste in a una sorta di sovracanone dell’onere concessorio, da ritenere non incompatibile con i conti economici delle società concessionarie, i quali sono stati presi in considerazione e valutati con riferimento ai due anni precedenti a quello al quale si riferisce il prelievo forzoso.
Le valutazioni già svolte al par. 3 in ordine ai soggetti obbligati e ai criteri oggettivi di riparto alla base dell’obbligo di rinegoziazione comporta la non fondatezza della censura.
Da quanto osservato discende, pertanto, l’obbligo dei concessionari di versamento della riduzione del compenso annuo dovuto agli operatori del gioco lecito nei confronti dell’Erario, fermo restando la possibilità di potere agire in regresso, pro quota, nei confronti degli altri operatori della filiera.
8. In conclusione, per le ragioni esposte, l’appello deve essere rigettato.
9. La particolare complessità del procedimento induce il Collegio a ravvisare eccezionali ragioni, che, ex artt. 26 comma 1, c.p.a, e 92 c.p.c., consentono di compensare integralmente le spese del secondo grado di giudizio e di porre a carico di entrambe le parti anche le spese della consulenza tecnica d’ufficio, che verranno liquidate con separato provvedimento.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto:
a) rigetta, nei sensi indicati in motivazione, l’appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe.
sb/AGIMEG