Giochi, CGE: “Il bridge duplicato non è uno sport, e non può beneficiare dell’esenzione IVA”

“Un’attività come il bridge duplicato, caratterizzata da una componente fisica che appare irrilevante, non rientra nella nozione di «sport», ai sensi della direttiva IVA”. LO ha stabilito la Corte di Giustizia Europea decidendo sulla causa intentata da un’associazione inglese – la  English Bridge Union (EBU)  – che organizza appunto tornei di bridge duplicati, ovvero una variante del gioco in cui ogni squadra gioca successivamente la stessa mano di carte delle rispettive controparti di altri tavoli, di conseguenza il punteggio è basato sulla performance relativa. I giocatori che si iscrivono ai tornei versano una quota di iscrizione su cui l’EBU assolve l’IVA. L’associazione ha però chiesto il rimborso dell’imposta, ritenendo di dover beneficiare delle esenzioni concesse dalla direttiva sull’IVA (Direttiva 2006/112/CE) a talune prestazioni di servizi strettamente connesse con la pratica dello sport. L’amministrazione tributaria inglese ha tuttavia respinto la richiesta spiegando che le esenzioni sono concesse a servizi «strettamente connessi con la pratica dello sport», e che questa definizione implichi una rilevante componente fisica. La Corte di Giustizia adesso precisa che la direttiva non contiene “alcuna definizione della nozione di «sport»”, pertanto  tale termine “deve essere definito, in forza di una costante giurisprudenza, sulla base del significato abituale che assume nel linguaggio corrente, tenendo conto al contempo del contesto in cui esso è utilizzato e degli obiettivi perseguiti dalla normativa”. Sebbene quindi il bridge duplicato richieda logica, memoria, strategia e possa costituire un’attività che arreca beneficio alla salute mentale e fisica di coloro che la praticano regolarmente, la CGE dichiara che “il fatto che un’attività favorisca la salute fisica e mentale non costituisce, di per sé, un elemento sufficiente per concludere che detta attività rientri nella nozione di «sport», ai sensi della direttiva”. La Corte precisa infine che la propria pronuncia “non pregiudica la questione se un’attività avente una componente fisica che appare irrilevante possa rientrare nella nozione di «servizi culturali» ai sensi della direttiva, qualora tale attività, tenuto conto della sua pratica, della sua storia e delle tradizioni a cui appartiene, occupi una posizione tale nel patrimonio sociale e culturale di un Paese da poter essere considerata come facente parte della sua cultura”. rg/AGIMEG