Cassazione: se c’è intermediazione, non contano le discriminazioni subite dal bookmaker. E’ il CTD a dover chiedere le autorizzazioni

“Qualora il gestore di un centro scommesse italiano affiliato a un bookmaker straniero metta a disposizione dei clienti il proprio conto-giochi o un conto giochi-intestato a soggetti di comodo, consentendo la giocata senza far risultare chi la abbia realmente effettuata, il suo legame con detto bookmaker diviene irrilevante, configurandosi come una mera occasione per l’esercizio illecito della raccolta di scommesse”. Lo ribadisce la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione respingendo il ricorso intentato dalla titolare di un Ctd condannata dalla Corte d’Appello di Catania per intermediazione nella raccolta di scommesse. La donna ha sollevato diverse censure contro la sentenza, in particolare ha provato a far leva sul fatto che il bookmaker di riferimento – pur non avendo concessione italiana – fosse regolarmente autorizzato in Austria, e ha quindi sostenuto che la compagnia avesse subito delle discriminazioni nell’accesso al mercato. La Cassazione ha tuttavia giudicato irrilevante la questione, visto che la donna non si limitava a mettere a disposizione dei clienti i computer per piazzare le scommesse, ma assumeva un ruolo di intermediario, addirittura facendo passare le puntate su dei conti di gioco a lei intestati. Non è pertanto la compagnia madre a dover ottenere la concessione e l’autorizzazione di polizia, ma il titolare del centro. La donna – sottolinea la Cassazione, “Non contesta, in particolare, la corretta e logica affermazione della Corte d’appello, secondo cui l’imputata, al fine di consentire le giocate, metteva a disposizione dei clienti il proprio conto-giochi e poi provvedeva alla stampa delle giocate stesse, cosicché era lei che figurava quale “scommettitore”, rispetto alle operazioni poste in essere per conto dei terzi interessati” con il bookmaker. “Tale modo di procedere configura una illegittima intermediazione, che rende irrilevante la questione dell’esistenza di titoli autorizzatori o concessori” in capo al bookmaker, “essendo il legame con la stessa una mera occasione per l’esercizio illecito della raccolta di scommesse da parte dell’imputata”. E quindi, la Suprema Corte ricorda che sulla questione la propria giurisprudenza è ormai costante: “in tema di esercizio abusivo di attività di gioco o scommessa, l’avere posto in essere, mediante attività di intermediazione e raccolta diretta delle scommesse, la condotta prevista dall’art. 4, comma 4-bis, della legge 13 dicembre 1989, n. 401, che non sia limitata alla mera trasmissione delle scommesse effettuate dai clienti ad un allibratore straniero, esclude ogni profilo discriminatorio nella partecipazione dello stesso alle gare, dal momento che l’attività e la conseguente necessità di titolo autorizzativo va individuata direttamente in capo all’operatore italiano”. rg/AGIMEG