ISTAT: “Tra imprese che più hanno chiesto prestiti per la riconversione dell’attività, quelle relative a lotterie e case da gioco”

In chiusura d’anno il sistema delle imprese recupera solidità. Oltre l’80% delle imprese, che rappresentano più del 90% del valore aggiunto, prevedono di trovarsi in una situazione di completa (41,3%) o parziale (39,5%) solidità entro la prima metà del 2022. Poco più del 3% si giudica invece gravemente a rischio. Il 9,4% delle imprese ha aumentato il personale nella seconda metà del 2021 mentre un altro 12,1% sta assumendo. Ma tra queste quasi i due terzi segnalano difficoltà a reperire le competenze necessarie. Per quasi un quarto delle imprese i fattori di rischio per la crescita sono l’indebolimento della domanda e gli ostacoli nell’acquisire gli input produttivi. E’ la fotografia scattata dall’Istat nel report ‘Situazione e prospettive delle imprese dopo l’emergenza sanitaria Covid-19’.

“Nel valutare l’andamento del fatturato registrato tra giugno e ottobre 2021 rispetto agli stessi mesi del 2020 le imprese si dividono in tre gruppi quasi equivalenti per numerosità: il 34,2% dichiara una riduzione delle vendite, il 33,7% un andamento stabile e il 32,1% un aumento. Quest’ultimo gruppo rappresenta però in termini occupazionali il segmento più ampio (45,1% rispetto al 26,6% di imprese in perdita e al 28,4% con fatturato stabile) e contribuisce a produrre la metà del valore aggiunto nazionale (49,8% contro il 22,8% delle imprese con fatturato in contrazione e il 27,4% di quelle con risultati stabili). L’industria in senso stretto e le costruzioni presentano una ripresa più diffusa: le imprese con un fatturato in aumento sono rispettivamente il 41,2% e il 37,3% mentre scendono al 30,1% nel commercio e al 28,1% negli altri servizi. In questi due segmenti del terziario sono anche più frequenti i casi di riduzione del fatturato, 37,4% e 36,5% a fronte del 29,8% dell’industria in senso stretto e al 25,2% delle costruzioni. Nei servizi una maggiore incidenza di imprese con fatturato in calo si rileva nei settori delle trasmissioni radiofoniche e televisive (60,8%), case da gioco (58,1%), trasporto areo (55,0%), riparazione di computer e altri beni personali (49,8%), servizi postali e di corriere (46,7%), finanziari e assicurativi (46,1%) e nel comparto della ristorazione (44,2%)”, si legge.

“L’indagine ha dedicato una specifica sezione alla gestione delle risorse umane da parte delle imprese, con particolare riferimento ai cambiamenti nell’utilizzo del personale (variazioni dell’occupazione e delle ore lavorate), alle nuove assunzioni e all’impiego del lavoro a distanza. Nell’interpretare i risultati occorre considerare che l’indagine è stata condotta a fine autunno, in una fase in cui la curva dei contagi era ancora contenuta e non erano state ancora annunciate nuove misure di contrasto all’epidemia potenzialmente rilevanti per le scelte delle imprese. Nella seconda metà del 2021 il 16,0% delle imprese con più di 3 addetti ha fatto ricorso a misure quali la Cassa integrazione guadagni (Cig) o altre equivalenti quali il Fondo integrazione salariale (Fis). Come atteso, l’utilizzo di tali strumenti è risultato molto meno diffuso rispetto al 2020: nella fase di sospensione dell’attività produttiva durante il primo lockdown, ovvero a marzo 2020, oltre il 70% delle imprese vi aveva fatto ricorso e alla fine dell’anno l’incidenza risultava pari al 42%. Come nel 2020, anche a giugno 2021 sono state le imprese più grandi a utilizzare più frequentemente questo tipo di strumento (21%), contro il 17,3% delle medie, il 16,9% delle piccole (10-49 addetti) e il 15,7% delle micro-imprese. A livello settoriale l’utilizzo della Cig è risultato più frequente nelle imprese degli altri servizi (17,6% delle imprese) e dell’industria in senso stretto (16,8%) e più contenuto in quelle del comparto delle costruzioni (9,0%). In particolare, la maggiore diffusione ha riguardato alcune attività economiche ancora penalizzate dalla crisi, quali le attività dei servizi di agenzie di viaggio, tour operator, servizi di prenotazione e attività connesse (74,6%), attività artistiche, sportive e di intrattenimento (33,9%) e, per quel che riguarda la manifattura, nelle unità dell’abbigliamento (42,9%) e delle calzature (44,2%)”, continua.

“A fine 2021, e con riferimento al primo semestre del 2022, il 19,2% delle imprese (circa 184mila) si definisce a parziale o grave rischio operativo. Tale condizione riguarda il 10,5% dell’occupazione (poco meno di 1,4 milioni di addetti) e il 7,9% del valore aggiunto del sistema produttivo. Il risultato segna un notevole miglioramento rispetto alla fine del 2020, quando più di un’impresa su tre manifestava criticità tali da comprometterne l’attività. Nel complesso, si considerano in una situazione di totale (41,3%) o parziale (39,5%) solidità più di otto imprese su dieci, rappresentative di quasi il 90% dell’occupazione e di una quota ancora superiore del valore aggiunto. La condizione di solidità/rischio è caratterizzata da una spiccata componente dimensionale. Nelle imprese di medie e grandi dimensioni una totale o parziale solidità caratterizza oltre nove unità produttive su dieci, percentuale che si riduce a poco meno dell’80% nelle micro-imprese. Tuttavia, anche in quest’ultimo segmento, la quota di imprese a forte o parziale rischio è inferiore a quella dell’anno precedente: il 21,3% (poco meno di 160mila imprese, circa 695mila addetti), contro il 34,3% di fine 2020. Un rischio operativo forte o parziale emerge anche per una quota non trascurabile di imprese medie e grandi (rispettivamente il 7,3% e il 5,4%): nell’insieme, queste occupano il 2,2% della forza lavoro e generano il 3,0% del valore aggiunto del sistema produttivo. In tutti i settori, tranne il terziario non commerciale, la quota di imprese solide è di poco inferiore all’85% (con un’incidenza di oltre il 90% in termini di occupazione e di valore aggiunto). La condizione di rischio (forte o parziale) si associa a circa 30mila imprese dell’industria in senso stretto (il 15,9% del comparto), a poco più di 17mila nelle costruzioni (16,2%) e a circa 36mila attività commerciali (15,6%). Una maggiore fragilità caratterizza anche i comparti degli altri servizi (23,1%, poco più di 100mila). In questo contesto, le più colpite sono le attività che hanno anche risentito di più delle misure di contenimento del contagio: si considera a rischio il 31,5% delle imprese dell’alloggio e ristorazione (47mila) e il 37,4% nella cultura e dell’intrattenimento (poco meno di 5mila). Pur in un contesto di recupero di solidità del sistema produttivo, circa un terzo delle imprese (circa 2,5 milioni di addetti, il 17,8% del valore aggiunto) non prevede di risalire nel primo semestre del 2022 alla capacità produttiva del periodo pre-pandemia mentre meno di una su dieci (2,3 milioni di addetti, il 19,6% del valore aggiunto) prevede di superarla. La tendenza alla stagnazione del potenziale produttivo è particolarmente spiccata per le imprese a rischio: solo l’1,5% di queste prevede una capacità produttiva in aumento contro un 71,2% che la vede ridotta. La tendenza negativa caratterizza anche il 20% delle imprese più solide mentre solo il 10,2% prefigura un aumento. La riduzione della capacità produttiva è prevista dal 32,3% delle micro-imprese e dal 22,0% delle piccole; in termini settoriali, dal 29,7% delle imprese del commercio, 34,9% degli altri servizi, 46,7% di alloggio e ristorazione, 50,1% di intrattenimento e cultura e 38,7% negli altri servizi alla persona”, prosegue.

“Al 31 dicembre 2020, il 30,2% delle imprese italiane (rappresentative del 19,2% dell’occupazione), soprattutto di ridotte dimensioni, erano in condizione di spiazzamento strategico, ovvero incapaci di definire strategie di reazione pur avendo segnalato una condizione di rischio operativo. Alla fine del 2021, lo spiazzamento strategico risulta sostanzialmente ridotto: a fronte di un 38,5% di imprese che dichiarano di non aver adottato o previsto strategie di reazione, solo il 7,4% (poco più di 72mila, con poco meno di 430mila addetti) si definiscono contestualmente in una situazione di forte o parziale rischio. Come nel corso della rilevazione precedente, l’incidenza delle imprese spiazzate è più elevata tra le micro-imprese (8,7% del totale) mentre è poco significativa nelle altre classi dimensionali. A livello settoriale, l’impatto più pervasivo si registra negli altri servizi (9,1%), in particolare tra le imprese dei comparti più colpiti dalla crisi: l’11,7% nella cultura e intrattenimento, il 12,0% nell’alloggio e ristorazione, l’11,9% negli altri servizi alla persona. In tutti gli altri settori, il peso delle imprese in condizione di spiazzamento strategico è inferiore alla media complessiva”, sottolinea.

“L’attuale fase di ripresa ciclica si riflette nel quadro degli strumenti finanziari scelti dalle imprese per soddisfare il proprio fabbisogno di risorse. Tra giugno e novembre 2021 la metà delle unità attive con almeno 3 addetti (49,8%, pari a 477mila imprese con 5,7 milioni di addetti) ha dichiarato di non avere avuto bisogno di ricorrere ad alcuna delle fonti indicate, percentuale in deciso aumento rispetto al 28,9% di un anno primavi . Il legame con la capacità di intercettare la ripresa è evidente: la quota di chi non ha utilizzato alcuno strumento è pari a circa il 61% per le imprese che ritengono solida la propria attività almeno fino a giugno 2022, scende intorno al 46% tra chi la ritiene parzialmente solida, a circa il 33% per chi la percepisce parzialmente a rischio e a meno del 30% per le imprese che si considerano a rischio chiusura. Coerentemente con il generale miglioramento del quadro economico e della liquidità aziendale, nella seconda metà del 2021 le esigenze di finanziamento hanno trovato principale risposta nell’utilizzo di attività liquide presenti in bilancio, segnalato dal 21,4% delle imprese (ma da oltre un quarto di quelle a rischio e da meno del 20% di quelle solide). Le altre fonti utilizzate con maggiore frequenza sono i prestiti bancari assistiti da garanzia pubblica (14,0%), i margini disponibili sulle linee di credito (13,6%) e la modifica delle condizioni contrattuali con fornitori (9,8%) e clienti (5,2%). In molti casi, tuttavia, l’utilizzo di tali strumenti nel periodo coperto dall’indagine appare ancora dettato dall’esigenza di reagire alle conseguenze della pandemia, poiché la quota di chi ne ha usufruito risulta sempre crescente ‒ in misura a volte considerevole ‒ all’aumentare del rischio percepito per la propria attività. Solo un segmento molto esiguo di imprese, pari allo 0,5% (circa 4.600, con un’incidenza pari all’1,5% tra quelle di maggiori dimensioni) si è rivolto a strumenti di finanziamento più evoluti e alternativi al debito bancario come obbligazioni, crowdfunding, piattaforme di prestito peer-to-peer (P2P). La quota è in sensibile diminuzione rispetto all’1,4% registrato dalla rilevazione di novembre 2020 e al 5,4% riscontrato a maggio 2020. L’elemento dimensionale è meno netto rispetto alle passate edizioni dell’indagine. Tuttavia, l’incidenza di chi dichiara di non avere utilizzato alcuno strumento supera il 50% tra le micro-imprese, scende al 43,4% tra le piccole, al 37,3% tra le medie e al 38,7% tra le grandi. Medie e grandi unità segnalano invece con maggiore frequenza il ricorso alla liquidità disponibile (38% in entrambi i casi, a fronte del 19,1% per le imprese con 3-9 addetti), ai margini sulle linee di credito (rispettivamente 19,2% e 18,7%) e al credito bancario non assistito da garanzia pubblica (7,4% e 8,8%). L’utilizzo del credito con garanzia pubblica è scelto soprattutto da imprese micro, piccole e medie. In una prospettiva settoriale, le attività liquide presenti in bilancio hanno sostenuto soprattutto l’attività delle imprese dei comparti energetico (36,0%), estrattivo (31,4%), di arte, sport e intrattenimento (30,4%) mentre i margini disponibili sulle linee di credito sono stati indicati tra i principali strumenti di sostegno finanziario dalle imprese delle costruzioni (16,2%) e, nell’industria, da quelle della filiera del tessile, abbigliamento e pelli (rispettivamente 21,0%, 18,4% e 19,6%) e nei settori della stampa (22,7%), metallurgia (22,2%) e autoveicoli (20,8%). Nel terziario, questa modalità di finanziamento è indicata soprattutto dalle imprese che operano nell’assistenza sociale non residenziale (24,2%), nelle attività creative e artistiche (23,6%), nella pubblicità e ricerche di mercato (21,1%). Al credito assistito da garanzia pubblica, infine, hanno fatto ricorso in misura relativamente maggiore le imprese di alcuni servizi duramente colpiti dalla crisi come alloggio e ristorazione (18,4%, 21,5% nel caso dei servizi di alloggio), agenzie di viaggio (27,6%), attività sportive e di intrattenimento (19,4%) oltre a quelle di alcuni settori manifatturieri come pelli (23,4%), metallurgia (19,5%), autoveicoli (19,3%). Come già segnalato, la metà delle imprese dichiara di non avere utilizzato alcuno strumento; questo avviene con un’incidenza più elevata nel comparto dei servizi di mercato, in particolare nelle attività assicurativo-finanziarie (63,7%), nella somministrazione di personale (62,8%), nei servizi immobiliari (61,9%) e di informazione e comunicazione (55,8%)”, specifica.

“Ha fatto ricorso a prestiti in forma di credito bancario o di strumenti di finanziamento ad esso alternativi il 21,9% delle unità con almeno 3 addetti, con incidenze comprese tra il 18,5% per le grandi imprese e il 25,6% per le medie. Tali quote crescono all’aumentare del grado di rischio percepito dall’impresa: da circa un quinto per chi ritiene che, su un orizzonte semestrale, la propria attività sia sostanzialmente solida a circa il 30% per coloro che la ritengono tendenzialmente a rischio. Come nella precedente indagine, anche nella fase attuale i prestiti vengono richiesti in primo luogo per finanziare l’attività corrente: per oltre l’87% delle imprese tale finalità è “importante” o “molto importante” (sostanzialmente in linea con la precedente rilevazione). Per il resto, il 62,2% delle imprese ha chiesto prestiti per coprire costi fissi non comprimibili come i canoni di locazione, il 58,2% per ripagare i debiti, il 54,6% per costituire scorte di liquidità e un terzo per finanziare la riconversione della attività. La finalità appare correlata al grado di solidità percepito dall’impresa. Da un lato le unità che ritengono la propria attività almeno parzialmente solida tendono a chiedere prestiti per costituire un cuscinetto precauzionale di liquidità con una frequenza pari al 56,2%, poco maggiore di quella (49,9%) delle imprese che si dichiarano almeno parzialmente a rischio. Diversa è la distribuzione per tutte le altre finalità considerate, con divari evidenti soprattutto per la copertura dei costi fissi incomprimibili (80,9% per le seconde a fronte di 55,6% per le prime) e il rimborso dei debiti (77,0% e 51,6%). Coerentemente con quanto sin qui visto, ricorrono con maggiore frequenza ai prestiti le imprese di minore dimensione. Se si esclude la finalità di supporto dell’attività corrente (indicata comunque da quasi l’80% delle grandi imprese), la componente dimensionale di tale scelta emerge soprattutto per la copertura dei costi fissi ‒ rilevante per quasi due terzi delle micro-imprese, oltre la metà delle piccole e per poco più di un terzo delle grandi ‒ e per ripagare i debiti (62,1% delle micro e 34,8% delle grandi). Le differenze settoriali nell’utilizzo di prestiti per finanziare l’attività corrente non sono molto ampie, in quasi tutti i settori questa finalità è rilevante per almeno tre quarti delle imprese. Al contrario, l’esigenza di coprire costi incomprimibili viene richiamata con maggiore frequenza in alcune attività del terziario, in particolare agenzie di viaggio (86,1%), istruzione (81,6%), alloggio e ristorazione (81,0%), attività artistiche e di intrattenimento (74,2%). Il comparto dei servizi si distingue inoltre per una maggiore incidenza dell’utilizzo di prestiti per il rimborso dei debiti accumulati; è il caso, ad esempio, dell’alloggio e ristorazione (71,0%) e degli altri servizi alla persona (63,3%). La necessità di costituire scorte di liquidità rappresenta invece una motivazione rilevante per i servizi di mercato, come quelli di somministrazione di personale (85,4%), attività postali e di corriere (84,5%), attività editoriali (71,6%) e professionali (in misura prossima al 60%). Nell’industria questa finalità è importante per quasi tre quarti delle unità del settore dei computer e beni elettronici e da quasi due terzi di quelle della farmaceutica. Infine, a chiedere prestiti per la riconversione dell’attività sono in prevalenza le imprese attive nei settori di gestione dei rifiuti e rete fognaria (oltre il 40%), ristorazione (43%), lotterie e case da gioco (47,5%)”, conclude. cdn/AGIMEG