Operazione ‘Babylonia’, iniziato processo di Appello per i locali e le case sequestrate, stoppato il passaggio ai nuovi acquirenti dopo le denunce e le proteste. Lo strano caso della società cipriota

Lo scorso 7 ottobre è iniziato il processo di Appello relativo alla confisca dei beni di Scanzani, una delle figure chiave dell’operazione Babylonia. La sentenza è attesa per il 13 maggio del prossimo anno. Nel caso di revoca della confisca – ipotesi non da escludere, in considerazione della sentenza della Corte di Cassazione e dell’orientamento a favore di Scanzani – gli immobili e le società torneranno nelle disponibilità dei proprietari, mentre se invece arrivasse la conferma del sequestro passerebbero nelle mani dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati, che può assegnarli per altre finalità.

Il giudice della prevenzione chiamato a revocare o confermare la confisca – si legge sulle pagine del “Tiburno” – non può non considerare che per le ipotesi di reato sono intervenute, nei confronti degli imputati, sentenze di assoluzione. Si deciderà la sorte di molti famosi locali di Roma e provincia. I proprietari lo scorso marzo hanno presentato un esposto alla Procura della Repubblica, indicando una serie di situazioni anomale che stavano portando la proprietà della società che lo gestiva in altre mani, passando anche per una società a giurisdizione cipriota. Sono gli effetti delle decisioni del Tribunale ordinario di Roma – sezione specializzata in misure di prevenzione – che ha autorizzato gli amministratori giudiziari a procedere alla sottoscrizione dei contratti di affitto e di cessione di aziende riconducibili alle società e imprese attinte da misura di prevenzione nell’ambito dell’operazione ‘Babylonia’.

Una vicenda comune a decine di altri bar e sale slot, con i proprietari che evidenziano in particolare come la vendita non sia contemplata fino a quando arriva la sentenza di Appello relativa al sequestro. Molti dei soggetti coinvolti hanno impugnato gli atti di cessione operati dagli amministratori giudiziari anche in sede civile, in quanto ritenuti nulli, atteso che la normativa contenuta nel codice antimafia non contempla l’ipotesi di vendita delle aziende in pendenza di giudizio. Dopo il polverone mediatico e dopo che i proprietari si sono incatenati davanti al Tribunale di Roma, è stato tutto bloccato. Gli esposti hanno fatto aprire anche tre fascicoli. La Procura dovrà verificare se queste operazioni di vendita erano regolari, chi ha controllato gli acquirenti fossero persone trasparenti e se ci sono stati ammanchi.

In primo grado Gaetano ‘Nino’ Vitagliano era stato condannato a 11 anni e mezzo, mentre Andrea Scanzani a 5 anni e 10 mesi. Tuttavia, l’ipotesi accusatoria è stata fortemente ridimensionata dal Tribunale, che ha affermato come Vitagliano non avesse finanziato il cantiere ‘I Pichini’ e che tra lui e Scanzani non era sorta alcuna società di fatto. Considerato il venir meno dell’ipotesi accusatoria legata alla società tra i presunti sodali, il Tribunale assolveva Scanzani da alcune ipotesi contestate di riciclaggio. La Corte di Appello di Roma, a dicembre 2020, ha rovesciato totalmente la sentenza di primo grado. E’ stata infatti considerata inesistente – come si legge ancora sul “Tiburno” – l’ipotesi contestata di associazione a delinquere: tutti gli imputati sono stati assolti in quanto il ‘fatto non sussiste’. Lo stesso Scanzani è stato assolto con formula piena ‘per non aver commesso il fatto’. Anche Vitagliano veniva assolto dalle accuse di false fatturazioni ed era ritornato in libertà da mesi, per scadenza dei termini. La sentenza di Appello ha condannato Vitagliano a 7 anni e mezzo, mentre la pena per Andrea Scanzani veniva ridotta a 4 anni per il solo capo di imputazione superstite, e cioè l’asserita vendita di 4 appartamenti. Tuttavia, la Suprema Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna nei confronti di Scanzani per questo reato. lp/AGIMEG