Slot, mazzette per evitare controlli al clan Lampada. La Cassazione conferma la condanna per un finanziere, ma chiede un nuovo processo per altri tre

Mazzette di 40mila euro ogni due mesi per informare di eventuali indagini in corso nei confronti della famiglia Valle-Lampada e delle società a loro riconducibili che operavano nel settore degli apparecchi da intrattenimento. Dalle indagini è emerso il coinvolgimento di alcuni esponenti della Guardia di Finanza che si sarebbero adoperati per “evitare controlli” a una serie di società che operavano nel milanese e nel reggino, e ai bar in cui le slot erano state istallate, i finanzieri fossero perfettamente consapevoli che le macchine erano “scollegate alla rete dei Monopoli di Stato in modo da far risultare mancati guadagni”. La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha confermato la sola condanna (a quattro anni e cinque mesi di reclusione) disposta nei confronti di un maresciallo capo, mentre ha annullato con rinvio le condanne (a tre anni e nove mesi ciascuno) disposte in appello nei confronti di altri tre militari. La responsabilità di questi ultimi “non è fondata su una piattaforma probatoria tale da superare la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio”. La Cassazione  ha in particolare sottolineato che “i tre finanzieri avessero come interlocutore” il maresciallo capo “il quale nella vicenda avrebbe svolto il ruolo di intermediario con Giulio Lampada”. Lampada stesso avrebbe fatto riferimento ai finanzieri e ai pagamenti effettuati ma “dal quel che emerge dalla sentenza, avrebbe avuto quale unico interlocutore” il maresciallo capo, “e non anche gli altri tre finanzieri”. A carico di questi ultimi vi sono comunque una serie di “circostanze importanti” (lo scambio di alcuni sms con il maresciallo capo, e un incontro avvenuto subito dopo che il finanziere aveva incontrato i fratelli Lampada), che tuttavia per la Cassazione “richiedono una precisa descrizione dei loro contenuti affinché possano essere ritenute motivato e logico riscontro alla chiamata in correità”. LA Suprema Corte ha quindi disposto l’annullamento della sentenza  e il rinvio “per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano”.lp/AGIMEG