Giochi, Tar Liguria accoglie ricorso contro regolamento Comune di Sarzana. “Ampliare nei luoghi sensibili tutte strutture ricettive è generico e va sottoposto a verifica”

Il Tar Liguria ha accolto il ricorso di una sala giochi contro il Comune di Sarzana, nel quale chiedeva l’annullamento del provvedimento in cui si negava l’autorizzazione all’esercizio a causa delle distanze minime ai luoghi sensibili dettate dal regolamento comunale. Secondo il giudice amministrativo “lungi dal disapplicare la norma regionale ovvero dal sollevarne la questione di legittimità costituzionale, è ben possibile svolgerne una applicazione ermeneutica coerente ai principi costituzionali (art. 41 Cost) e sovranazionali predetti: in tale ottica la fase attuativa della norma regionale avrebbe dovuto essere accompagnata da adeguati approfondimenti nel senso reso chiaro dai principi sopra richiamati”. “Invertendo l’ordine delle censure dedotte, appare prioritario – si legge nella sentenza – l’esame dei vizi di carattere procedimentale, in specie rispetto ai doveri dettati per la p.a. a tutela delle garanzie procedimentali. In generale, va ricordato come la disposizione di cui all’art. 10 bis cit. (al pari delle indicazioni ivi contenute e dei relativi doveri), va qualificata quale norma di principio (cfr. ad es. Tar Liguria n. 286\2012 e 167\2016), cosicchè l’obbligo di valutare le osservazioni presentate deve essere oggetto di coerente conseguente inquadramento. Pertanto, il definitivo diniego dell’istanza di parte tesa ad ottenere l’autorizzazione all’apertura di una sala giochi (in specie dopo aver già ottenuto la licenza di pubblica sicurezza), non può prescindere, come di regola nei procedimenti avviati ad istanza di parte, dal momento di coinvolgimento procedimentale, in contraddittorio, del destinatario del provvedimento finale, da realizzarsi tramite comunicazione del preavviso di rigetto ex art. 10 bis della legge n. 241/1990. Nel caso di specie, se per un verso è pacifica la mancata adozione di tale necessario passaggio di garanzia procedimentale, per un altro e connesso verso neppure è invocabile la sanatoria processuale, stante la natura non vincolata del potere esercitato. A quest’ultimo riguardo, la natura di principio della norma ex art. 21 octies comma 2 l. 241 cit. nonché lo stesso tenore letterale della stessa, confermano come il vincolo debba riguardare non tanto l’esito dell’iter nel caso di specie, secondo la p.a., quanto, piuttosto, la natura dell’atto; e la materia della regolamentazione dei limiti di rilascio delle autorizzazioni al gioco lecito è all’evidenza rimessa al potere discrezionale della p.a., specie a fronte della norma invocata ed applicata dal Comune, ex art. 2 comma 2 l.r. 17\2012, la quale rimette alla scelta discrezionale del singolo ente locale in merito alla possibile estensione dei luoghi sensibili. Parimenti fondate appaiono le censure dedotte, avverso il diniego impugnato, in termini di difetto di istruttoria e di motivazione circa le effettive ragioni della reputata sensibilità nel caso de quo. A fronte delle ricadute derivanti dalla scelta del Comune di adottare una norma regolamentare – di carattere generale ed astratta e priva quindi di concreta analisi istruttoria e motivazionale caso per caso -, la p.a. avrebbe dovuto istruire e motivare in relazione alla singola fattispecie applicativa ed alle specifiche caratteristiche reputate rilevanti, ai fini attuativi della norma ed in termini applicativi delle possibili ragioni individuate dalla stessa disposizione regionale. Nulla di tutto ciò risulta posto a fondamento del diniego impugnato nella presente sede, con il quale la p.a. si è limitata a richiamare la norma regolamentare. In merito alla fondatezza dei rilievi dedotti avverso quest’ultima disposizione, preme evidenziare come la norma regionale, dopo aver dettato la regola generale di cui al comma 1 (da intendersi comunque in termini non estensivi, stante l’effetto di deroga ai principi di cui all’art. 41 Cost.), abbia rimesso al Comune la possibilità di “individuare altri luoghi sensibili in cui può non essere concessa l’autorizzazione di cui al comma 1, tenuto conto dell’impatto della stessa sul contesto urbano e sulla sicurezza urbana, nonché dei problemi connessi con la viabilità, l’inquinamento acustico e il disturbo della quiete pubblica”. Se in linea generale va ricordato l’obbligo di perseguire un’interpretazione delle norme (anche regionali) costituzionalmente orientata, oltre che conforme ai principi di origine europea, in linea applicativa è evidente come nel caso de quo la norma, lungi dall’attribuire al Comune un mero potere regolamentare, abbia attribuito la possibilità di individuare specifiche ipotesi che, alla stregua delle finalità indicate dalla stessa norma, debbono costituire il frutto di una adeguata istruttoria e di una conseguente esplicazione motivazionale. Altrimenti opinando dovrebbe ritenersi che il legislatore regionale abbia inteso attribuire un potere generale di esclusione di attività di impresa, delegando in toto alla singola p.a. scelte in termini non censurabili, ciò in specie alla luce della totale genericità delle nozioni connesse (con particolare riferimento all’impatto sul contesto urbano), senza considerare che la questione della sicurezza risulta già garantita dalla relativa licenza (che nel caso de quo risultava fra l’altro ottenuta). In generale, a fini di inquadramento ermeneutico della normativa in esame vanno richiamati alcuni dei fondamentali principi dettati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. ad es. Cge sentenza Costa 16\2\2012). Va premesso che i limiti (di carattere locale) in esame, concernenti le distanze dai luoghi sensibili, appaiono ben diversi e distinti da quelli (di livello statale) reputati legittimi dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. sent 56\2015). In termini di inquadramento della giurisprudenza sovranazionale, con riferimento ai diversi limiti introdotti dal legislatore nazionale la Corte europea ha riconosciuto che tali obiettivi, attinenti, da un lato, alla riduzione delle occasioni di gioco e, dall’altro, alla lotta contro la criminalità mediante l’assoggettamento a controllo degli operatori attivi in tale settore e l’incanalamento delle attività di gioco d’azzardo entro i circuiti così controllati, rientrano tra quelli riconosciuti come idonei a giustificare restrizioni alle libertà fondamentali nel settore dei giochi d’azzardo(sentenza c.d. Placanica del 2007, punti 46 e 52). Tuttavia, per quanto riguarda in specie il primo di questi obiettivi (rilevante nel caso de quo), il settore dei giochi d’azzardo in Italia è stato per lungo tempo caratterizzato da una politica di espansione finalizzata ad aumentare gli introiti fiscali e dunque, in tale contesto, non è possibile invocare alcuna giustificazione fondata sugli obiettivi della limitazione della propensione al gioco dei consumatori o della limitazione dell’offerta di giochi. Per quanto riguarda poi il secondo degli obiettivi invocati, risulta da una giurisprudenza consolidata che le restrizioni imposte dagli Stati membri devono soddisfare il principio di proporzionalità, e che una normativa nazionale è idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo invocato soltanto se i mezzi impiegati sono coerenti e sistematici. In tale contesto, le norme sulle distanze minime sono state imposte unicamente ai nuovi concessionari, ad esclusione di quelli già insediati. Pertanto, secondo la Cge, anche se un regime di distanze minime tra punti di vendita potrebbe essere di per sé giustificato, non si può ammettere che simili restrizioni vengano applicate in circostanze quali quelle in esame nei procedimenti principali all’esame della Corte, in cui esse penalizzerebbero unicamente i nuovi concessionari che fanno ingresso sul mercato. Inoltre, un regime di distanze minime tra punti di vendita potrebbe essere giustificato soltanto qualora fosse escluso – ciò che spetterebbe al giudice nazionale verificare – che il reale obiettivo di tali norme sia quello di proteggere le posizioni commerciali degli operatori esistenti, anziché quello, invocato dal governo italiano, di incanalare la domanda di giochi d’azzardo entro circuiti cont
rollati. Invero nel caso de quo le norme paiono muoversi pacificamente nel solco tracciato dalla Corte. Peraltro, la stessa giurisprudenza sovranazionale impone di verificare che l’obbligo di rispettare determinate distanze minime, il quale impedisce l’insediamento di punti di vendita supplementari in zone fortemente frequentate dal pubblico, sia veramente idoneo a realizzare l’obiettivo invocato e avrà effettivamente come conseguenza che i nuovi operatori sceglieranno di stabilirsi in luoghi poco frequentati, assicurando così una copertura a livello nazionale. Ed è anche in relazione a tali aspetti, imposti dalla giurisprudenza sovranazionale, che risulta confermato il difetto di istruttoria e di motivazione censurati nella specie, in cui la verifica delle caratteristiche dell’area avrebbe probabilmente condotto ad un esito diverso. In generale, va altresì ricordato l’orientamento della Cge a mente del quale le restrizioni in esame possono essere ammesse in quanto rientranti tra le misure in deroga espressamente previste dagli articoli 45 CE e 46 CE, o possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che esse rispettino i requisiti di proporzionalità risultanti dalla giurisprudenza della Corte. A questo proposito, la giurisprudenza ha ammesso un certo numero di motivi imperativi di interesse generale, quali gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione delle frodi e dell’incitamento dei cittadini ad una spesa eccessiva legata al gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale (sentenza Placanica e a., cit., punti 45, 46 e 48). Peraltro, nell’attribuire concessioni quali quelle in esame, l’autorità concedente è tenuta ad un obbligo di trasparenza, consistente in particolare nel garantire, ad ogni potenziale offerente, un livello di pubblicità adeguato, tale da consentire l’apertura della concessione alla concorrenza nonché il controllo sull’imparzialità delle procedure di attribuzione. Inoltre, il principio di trasparenza, che costituisce un corollario del principio di uguaglianza, ha in tale contesto essenzialmente lo scopo di garantire che qualsiasi operatore interessato possa decidere di partecipare a pubbliche gare sulla base delle informazioni pertinenti, nonché quello di garantire l’esclusione di qualsiasi rischio di favoritismo e arbitrarietà da parte dell’autorità aggiudicatrice. Esso implica che tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate in maniera chiara, precisa e univoca, in modo tale per cui, da un lato, sia consentito a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l’esatta portata e di interpretarle nella stessa maniera e, dall’altro, siano fissati dei limiti al potere discrezionale dell’autorità concedente e quest’ultima sia messa in grado di verificare effettivamente se le offerte dei candidati rispondono ai criteri disciplinanti la procedura in questione (v., in tal senso, sentenze del 29 aprile 2004, Commissione/CAS Succhi di Frutta, C-496/99 P, Racc. pag. I-3801, punto 111, nonché del 13 dicembre 2007, United Pan-Europe Communications Belgium e a., C-250/06, Racc. pag. I-11135, punti 45 e 46). Ciò costituisce corollario della regola fondamentale per cui il principio di certezza del diritto esige inoltre che le norme giuridiche siano chiare, precise e prevedibili nei loro effetti, in particolare quando esse possano avere conseguenze sfavorevoli per gli individui e le imprese (v., in tal senso, sentenza del 7 giugno 2005, VEMW e a., C-17/03, Racc. pag. I-4983, punto 80 e la giurisprudenza ivi citata). Applicando tali coordinate al caso di specie appare evidente come la genericità del riferimento al contesto urbano e, in generale, del rinvio al potere estensivo comunale di cui al comma 2 sia tale da imporne una applicazione adeguatamente istruita e motivata caso per caso, al fine di verificare il rispetto dei limiti e dei principi sopra richiamati. A conferma di ciò merita di essere richiamata un’ulteriore fondamentale indicazione dettata dalla giurisprudenza sovranazionale, utile anche per la fase attuativa e di verifica degli obiettivi. Infatti, ancora di recente (cfr. ad es. Corte giustizia UE, sez. VII, 30/06/2016, n. 464) è stato ribadito che, al fine di valutare la proporzionalità di una normativa nazionale che limita la libera prestazione dei servizi nel settore dei giochi d’azzardo, occorre valutare non solo l’obiettivo di tale normativa, così come appariva al momento della sua adozione, ma anche gli effetti di detta normativa, valutati successivamente alla sua adozione. La legittimità di una tale normativa, infatti, dipende anche dal modo in cui essa viene attuata e dall’evoluzione delle circostanze successive alla sua adozione. Le restrizioni alla libera prestazione dei servizi che possono derivare da normative nazionali, come quelle in questione, possono essere giustificate da motivi imperativi d’interesse generale solo se e in quanto il giudice nazionale, in esito a una valutazione globale delle circostanze che hanno accompagnato l’adozione e l’esecuzione di tali normative, concluda nel senso che esse perseguono effettivamente obiettivi di tutela dei consumatori contro la dipendenza dal gioco e di lotta contro le attività criminali e fraudolente collegate al gioco; che questi obiettivi siano perseguiti in modo coerente e sistematico, e che tali misure soddisfano gli obblighi derivanti dai principi generali del diritto dell’Unione, di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, nonché il diritto di proprietà. Nel caso de quo la norma attributiva del potere che ha portato ad ampliare i luoghi sensibili sino a ricmprendervi tutte le strutture ricettive (oltretutto nell’ambito di un concetto del tutto generale e generico quale quello di contesto urbano) appare di elevata genericità, tale da imporre quindi – alla luce dei predetti principi – una verifica applicativa, motivata ed istruita.

Tutto ciò manca nel caso de quo. Peraltro, lungi dal disapplicare la norma regionale ovvero dal sollevarne la questione di legittimità costituzionale, è ben possibile svolgerne una applicazione ermeneutica coerente ai principi costituzionali (art. 41 Cost) e sovranazionali predetti: in tale ottica la fase attuativa della norma regionale avrebbe dovuto essere accompagnata da adeguati approfondimenti nel senso reso chiaro dai principi sopra richiamati. Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso va accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati. A diverse conclusioni deve giungersi in merito alla domanda risarcitoria, in quanto genericamente dedotta: sia rispetto ai presupposti ed agli elementi necessari al fine di ritenere integrata la invocata responsabilità; sia in relazione alle stesse voci di danno asseritamente patite, come reso evidente dal rinvio della produzione di idonea documentazione, come prospettato in memoria finale di parte ricorrente, mai presentata”. lp/AGIMEG