Cassazione, videogiochi trasformati in slot: reato di frode informatica ma non peculato

Il gestore di bar che, d’accordo e in concorso con il concessionario, trasforma i videogiochi in slot machine rischia una condanna per frode informatica ma non può essere incriminato per il più grave delitto di peculato. Con una lunga motivazione la Seconda penale della Suprema Corte (sentenza 18909/13, depositata il 30 aprile) ridisegna i limiti e le interazioni tra i due reati, stabilendo un criterio cronologico per far scattare la più grave imputazione propria del pubblico ufficiale. In sostanza, se gli “artifici e raggiri” per ingannare l’Amministrazione (cioè l’alterazione del funzionamento delle macchinette) sono stati realizzati «antecedentemente» all’appropriazione fraudolenta del denaro spettante allo Stato, il giudice dovrà limitarsi a contestare la frode informatica, mentre se il momento consumativo dell’appropriazione è successivo sarà possibile procedere per il più grave reato “qualificato”. I fatti di causa non erano controversi. Il gestore di un esercizio pubblico siciliano aveva “elaborato” alcuni dispositivi di abilità/intrattenimento (disciplinati dal comma 7 dell’articolo 110 del Tulps) trasformandoli in «apparecchi da gioco che producono vincite» (comma 6 dell’articolo 110 Tulps). La differenza, oltre che di intensità del divertimento, è di tipologia (si passa dall’«abilità» all’«alea» pura) ma soprattutto di regime fiscale, considerato che per l’intrattenimento il gestore paga un’imposta forfetaria, mentre per le slot (e simili) è previsto un collegamento telematico con i Monopoli che consente all’Amministrazione di rilevare il volume di gioco e di determinarne la tassazione. Inoltre, le macchinette d’azzardo devono comunque garantire una percentuale di vincite sul giocato pari al 75% su un ciclo di 140mila partite, target del tutto ignorato dalla manipolazione artigianale effettuata nel bar in questione, con il pieno accordo elusivo tra concessionari ed esercente. Nonostante la gravità delle alterazioni – e il consistente danno erariale determinato dal mancato incasso del 13,5% sul totale delle giocate – la Cassazione ha però ridotto gli addebiti del barista, cancellando il concorso tra il reato di frode informatica e quello di peculato. Secondo la Corte, c’è un’incompatibilità logica tra la truffa e il reato del 314 del codice penale (nel secondo caso «l’eventuale condotta fraudolenta costituisce un posterius, privo di rilevanza giuridica», mentre gli «artifici e raggiri» sono elementi costitutivi della truffa) incompatibilità che si riflette anche sul rapporto tra il peculato e la frode informatica dell’articolo 640–ter. A guidare la scelta del giudice (in questo caso del pm, per la richiesta della custodia cautelare) è quindi il momento consumativo dell’appropriazione del denaro di spettanza erariale. Se questa – si legge oggi su Il Sole24 Ore – è successiva alla “elaborazione” della macchinetta, e ne è in fondo l’effetto naturalistico, ci si dovrà muovere nell’ambito dei delitti contro il patrimonio (frode informatica), mentre se il maltolto era già nella disponibilità dell’agente qualificato (e anche dei suoi concorrenti non appartenenti alla Pa) sarà possibile contestare il peculato. lp/AGIMEG